Valutazione attuale: 5 / 5

Stella attivaStella attivaStella attivaStella attivaStella attiva
 

La danza del cosmo

Mitologia e filosofia orientale alla luce delle nuove scoperte scientifiche.

a cura di Marco Biondi

Siva Nataraja.
Siva Nataraja.
La danza del cosmo, o meglio, la danza della vita, rappresenta ed è rappresentata nei miti asiatici come il continuo cambiamento, divenire ed interazione di tutte le particelle che compongono la materia e la vita stessa. Il continuo configurarsi dal caos all’ordine, la continua trasformazione da forme energetiche ad altre, e la nostra stessa evoluzione, stanno a indicarci questo universo dinamico che gli Indu chiamano Brahma.
Nelle loro leggende il dio unico, per amore del gioco e della vita, si trasforma per diventare tutte le cose, tutti gli esseri,  quindi, in pratica, da una forma si scompone in tutte le forme.
 Da questa continua danza fatta di creazione e distruzione si ritornerà all’essere originale:
«La materia, la vita, il pensiero non sono che relazioni energetiche, ritmo, movimento e attrazione reciproca. Il principio che dà origine ai mondi, alle varie forme dell'essere, può dunque essere concepito come un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi, dai movimenti della danza. In quanto principio creatore, Śiva non profferisce il mondo, lo danza». (Alain Daniélou, Śiva e Dioniso, 1980, Op. cit., p. 181)
Nella moderna cosmologia, questa sublimazione in termini mitologici si ritrova nella teoria del big bang, in cui, come ormai tutti sanno, si ipotizza che da una singolarità immensamente calda e densa ed infine esplosa, siano nate tutte le galassie e l’espansione dell’universo, e che un giorno, alla fine del ciclo, l’universo collasserà di nuovo per effetto gravitazionale su se stesso e, ritornando alla sua origine di singolarità, riavvierà di nuovo lo stesso schema probabilmente all’infinito.
Noi possiamo solo osservare scientificamente questi fenomeni, ma per capire realmente la loro motivazione profonda e la loro origine, dobbiamo necessariamente entrare in un’ottica mistica.
Questa idea di un universo che periodicamente si espande e si contrae, nella quale compare una scala di tempo e di spazio di proporzioni enormi, è comparsa solo di recente nella cosmologia moderna, ma era già presente nell’antica mitologia indiana.
Gli indù, che percepivano l’universo come un cosmo organico e in movimento ritmico, furono in grado di elaborare cosmologie evolutive che si avvicinano molto ai nostri modelli scientifici moderni. Una di queste cosmologie è basata sul mito indù di Lila, “il gioco divino” nella quale Brahma si trasforma nel mondo. Lila è un gioco ritmico che continua in cicli senza fine, durante i quali l’Uno diviene i molti e i molti ritornano nell’Uno.
Nella Bhagavad Gita, uno dei più importanti testi sacri indiani, il dio Krsna descrive il gioco ritmico di creazione con le seguenti parole:
“Tutti gli esseri alla fine di un kalpa (o ciclo cosmico) tornano alla mia realtà; e al principio del ciclo successivo di nuovo io li emetto.
Avvalendomi di quella realtà che è la mia propria, sempre di nuovo emetto tutta questa molteplicità di esistenti, priva di ogni potere, dal momento che giace sotto il dispotismo della prakrti (o natura).
E tali atti non mi vincolano neppure, o possessore della ricchezza, poiché io sto a sedere come colui che non è impegnato, non essendo io condizionato da attaccamenti in questi atti.
Avendo me come guida, la natura dà origine all’insieme delle cose mobili e delle immobili: con questo mezzo (per questa via) il mondo si volge e di nuovo si volge”

I saggi indù non ebbero timore di identificare questo ritmico gioco divino con l’evoluzione del cosmo nel suo insieme. Essi ritenevano che l’universo si espandesse e si contraesse periodicamente e diedero il nome di kalpa all’inimmaginabile intervallo di tempo che va dall’inizio alla fine di una creazione. Se si pensa che alla mente umana sono occorsi più di duemila anni per arrivare di nuovo ad un concetto simile dandogli una connotazione scientifica, si può comprendere la complessità di questo mito e il perché induca a profonde riflessioni.
Per l’indù comune, così come per la maggior parte delle popolazioni antiche, il modo più diffuso di avvicinarsi al Divino, consiste nel venerarlo nella forma di una divinità personale. La fertile immaginazione indiana ha creato letteralmente migliaia di divinità che compaiono in innumerevoli sembianze.
Attualmente le tre divinità più venerate nell’india sono Siva, Visnu e la Madre Divina.
Siva è uno degli dei indiani più antichi e può assumere molte forme. E’ chiamato Mahesvara, il Grande Signore, quando viene rappresentato come la personificazione della pienezza del Brahman, e può anche impersonare molti singoli aspetti del Divino; la sua manifestazione più famosa è quella in cui compare come Nataraja, il Re dei Danzatori. Come danzatore cosmico, Siva è il dio della creazione e della distruzione, che con la sua danza sostiene il ritmo senza fine dell’universo.
La mente occidentale si disorienta facilmente di fronte all’elevato numero di divinità che popolano la mitologia indù nelle loro varie manifestazioni e incarnazioni. Per comprendere come gli indù riescano a tener conto di una tale massa di dei, dobbiamo essere consapevoli dell’atteggiamento di fondo dell’induismo, secondo cui nella sostanza tutte queste divinità sono identiche. Esse sono tutte manifestazioni della stessa realtà divina, che riflette aspetti differenti dell’infinito universo Brahman, onnipresente e, in definitiva, incomprensibile.
È affascinante osservare come la scienza del 20 secolo, nata dalla separazione introdotta da Cartesio e dalla concezione meccanicistica del mondo, superi oggi questa frammentazione e ritorni nuovamente all'idea di unità espressa nelle prime filosofie greche e orientali. Il pensiero orientale è vicino alla concezione del mondo fatta propria dalla scienza di oggi, infatti, il secolo scorso è stato dominato, nel campo delle scienze fisiche, da rivoluzioni come il Principio di indeterminazione di Heisenberg e la Teoria della relatività di Einstein, che hanno portato a un radicale cambiamento della percezione del mondo. La concezione newtoniana di un universo fondamentalmente statico, governato da leggi immutabili è stata abbandonata. Prevale oggi l'idea che la materia abbia uno stato fondamentalmente dinamico e che tutti i fenomeni fisici siano strettamente correlati l'uno con l'altro.
La teoria di Prigogine, come la teoria quantistica e la teoria del caos, ci ricordano una volta di più che la conoscenza scientifica ci offre soltanto una finestra limitata sull’universo. Nella fisica quantistica la realtà è sfuggente, le particelle subatomiche non si possono interpretare come entità isolate, ma come definizione (frutto) di interconnessioni e relazioni reciproche, espresse in termini di probabilità, che sono determinate dalla dinamica dell’intero sistema, dunque è il tutto che determina il comportamento delle parti. Le particelle infinitesimali hanno dimensioni e caratteristiche che il solo disturbo di un operatore e dei suoi strumenti, rende vano qualsiasi calcolo o certezza. Alcuni studiosi ipotizzano che il motivo per cui alcune particelle sono elusive, sia perché si spostano nel tempo o in dimensioni spazio/temporali diverse.
Per ovviare a questi paradossi si fa strada, grazie alla filosofia orientale, l'idea di una via della fisica con il cuore, fatta non più di solo osservazione dei fenomeni, ma di partecipazione . Si accoglie, cioè, l'ideale di un uomo non più frammentato (in noi stessi, nel nostro ambiente, e nella nostra società) ed estraniato dalla natura, ma custode del bene comune e proteso al benessere di tutti gli esseri viventi, e che in definitiva si riappropria di un etica e di una educazione solidale, inclusiva, e sostenibile.
La tradizione filosofica orientale contiene già principi come universo dinamico e unità di tutte le cose che si accordano con le moderne concezioni della fisica, perché ci presenta un universo Brahman che ingloba tutto, che non chiede nulla perché esso è già in noi, pertanto non bisogna chiedere ‘perché’ o ‘per come’, in quanto sarebbe come chiedere ad un bambino ‘perché cresci e come fai a crescere così’ o chiedere al conoscente di conoscere se stesso, ovvero farsi oggetto della propria conoscenza. La parola Brahman deriva dalla radice ‘crescere’, dato che la sua attività creativa, come quella del Tao, ha un carattere di spontaneità proprio della crescita, distinto dalla deliberazione-volontà propria del ‘creare’ presente in altre religioni.
Inoltre, benché si dica che Brahman conosce se stesso, questo ‘conoscersi’ non è frutto di informazione, non è la conoscenza che si può avere di oggetti distinti da un soggetto. Brahma è il ‘tutto’, ma anche il ‘non tutto’, perché cambia, muta, egli stesso è in crescita o, si potrebbe dire, in evoluzione o, ancora, in cammino. Brahman è il filo unificatore della rete cosmica, la base ultima di tutto l’essere.
La caratteristica più importante della concezione del mondo orientale, si potrebbe quasi dire la sua essenza, è la consapevolezza dell’unità e dell’interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, la constatazione che tutti i fenomeni nel mondo sono manifestazioni di una fondamentale unicità. Ogni cosa è vista come parte interdipendente di questo tutto cosmico, come differente manifestazione della stessa realtà ultima.
Il cosmo è visto come una unica realtà indivisibile, in eterno movimento, animata, organica: materiale e spirituale nello stesso tempo. Poiché il movimento e il mutamento sono proprietà essenziali delle cose, le forze che causano il movimento non sono esterne agli oggetti, come nella concezione della Grecia classica, ma sono una proprietà intrinseca della materia.
Corrispondentemente, l'immagine orientale della divinità non è quella di un sovrano che dirige il mondo dall'alto, ma quella di un principio che controlla ogni cosa dall'interno. Il grande Tao (universo Brahma) si espande a sinistra e a destra (spontaneità), le cose e la vita stessa, in continua crescita e mutamento, derivano da lui; però egli non parla di merito compiuto ,senza pretese, nutre gli esseri senza impadronirsene.
Le masse indiane non hanno ricevuto l'insegnamento dell'induismo attraverso le Upanisad (testi religiosi e filosofici indiani che contengono l'essenza del messaggio spirituale ), ma attraverso un gran numero di racconti popolari, raccolti in lunghi poemi epici che sono la base della vasta e pittorica mitologia indiana.
Uno di questi poemi, il Mahabharata, contiene il bellissimo poema spirituale della Bhagavad gita Gita, il testo religioso più amato di tutta l'India.
La gita Gita, come comunemente viene chiamata, è un dialogo tra il dio Krsna e il guerriero Arjuna, il quale si trova in uno stato di grande disperazione, essendo obbligato a combattere i suoi stessi parenti.
Krsna, travestito da auriga di Arjuna, conduce il cocchio esattamente tra i due eserciti, e nel drammatico scenario del campo di battaglia, comincia a rivelare ad Arjuna le verità più profonde dell'induismo.
Mentre il dio parla, lo sfondo realistico della guerra tra i due clan familiari si dissolve rapidamente, e risulta chiaro che la battaglia di Arjuna è la battaglia spirituale dell'uomo, la battaglia del guerriero in cerca dell' illuminazione.
Krsna stesso fa ad Arjuna questa raccomandazione:
“quindi, colla spada della conoscenza, recidi questo dubbio che ti siede nel cuore, nato nell'ignoranza, raggiungi con lo joga l'unità dell'armonia e sorgi, o Arjuna”.
Il fondamento del messaggio spirituale di Krsna, come di tutto l'induismo, è l'idea che la moltitudine di cose e di eventi che ci circondano non siano altro che differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Questa realtà, chiamata Brahman, è il concetto unificante che dà all'induismo il suo carattere essenzialmente monistico, nonostante l'adorazione di un gran numero di dei e di dee. La manifestazione di Brhaman nell'anima umana è chiamata Atman, e l'idea che Atman e Brahman, la realtà individuale e la realtà ultima, siano una cosa sola è l'essenza delle Upanisad
. Il tema fondamentale ricorrente in tutta la mitologia indù, è la creazione del mondo mediante il sacrificio che dio fa di se stesso - ”sacrificio” nel senso originale di “rendersi sacro” - e per mezzo del quale dio diviene il mondo, che alla fine ridiventa dio.
Questa attività creativa del divino è chiamata Lila, il gioco di dio, e il mondo è considerato lo scenario nel quale si svolge il gioco divino.
Come la maggior parte della mitologia indù, il mito di Lila ha un forte sapore magico.
Brahman è il grande mago che si trasforma nel mondo, compiendo tale impresa con la sua “magica potenza creativa”; questo è anche il significato originario di Maya secondo il Rg-Veda (una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda, gli Inni della Conoscenza). La parola Maya, uno dei termini più importanti della filosofia indiana, ha mutato il suo significato attraverso i secoli. Da potere o potenza dell'attore o mago divino, è giunta a significare lo stato psicologico di chiunque si trovi sotto l'incantesimo di questo gioco magico.
Fintanto che confondiamo la miriade di forme della divina Lila con la realtà, senza percepire l'unità di Brahman che sta alla base di tutte queste forme, siamo sotto l'incantesimo della Maya. Maya, perciò, non significa che il mondo è un illusione, come spesso viene erroneamente affermato. L'illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme, le strutture e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti della nostra mente, la quale misura e classifica. Maya è l'illusione che deriva dallo scambiare questi concetti per realtà, dal confondere la mappa con il territorio. Nella concezione indù della natura , quindi, tutte le forme sono relative, Maya è fluida e continuamente mutevole, evocata dal grande mago del gioco divino. Il mondo della Maya cambia continuamente, perché la divina Lila è un gioco ritmico, dinamico.
La forza dinamica di questo gioco è il karman Karman, che significa azione; è il principio attivo del gioco, è l'universo intero in azione, dove tutto è dinamicamente connesso con tutto il resto. Per usare le parole della Gila, “Karman” è la forza creatrice che da origine all'esistenza degli esseri. Essere liberi dall'incantesimo della Maya, spezzare i legami del karman Karman, significa comprendere che tutti i fenomeni che percepiamo con i nostri sensi sono parte della medesima realtà.
Significa provare concretamente e personalmente che tutto, compreso il nostro stesso io, è Brahman.
Questa esperienza nella filosofia indù è chiamata Moksa, o liberazione, ed è la vera essenza dell'induismo e di tutto il pensiero orientale.
A trarre beneficio dalle filosofie orientali non sono solo le scienze che studiano la materia come l'astrofisica ,ma soprattutto le ultime teorie ecologistiche secondo cui la sopravvivenza dell’umanità dipenderà dal nostro grado di competenza ecologica, dalla nostra capacità di comprendere i principi dell’ecologia e di vivere in conformità con essi; per fare questo e trovare le risposte è necessario andare in profondità dentro noi stessi e immergerci realmente nell’essenza delle cose di cui siamo parte.
Che cos’è la vita? Per rispondere a questo interrogativo Fritjof Capra, fisico e saggista, ha indagato su più fronti e in campi diversi (teoria della complessità, teoria di Gaia, teorie del caos) e ha delineato un nuovo pensiero che vede nella natura e negli esseri viventi non entità isolate, ma sempre e comunque “sistemi viventi” dove il singolo è in uno stretto rapporto di interdipendenza con i suoi simili e con il sistema tutto. La somma di queste relazioni, che legano gli universi della psiche, della biologia e della cultura è una rete: la rete della vita. Per vincere le sfide che l’impegnano, e che discendono dallo sviluppo selvaggio, dalla distruzione della natura, dalla nevrosi ormai strutturale del nostro vivere, l’umanità dovrà cercare di studiare e capire questa trama invisibile, ma essenziale, di relazioni che la circonda.
Capra, nel suo libro “La rete della vita”, trae spunto da una riflessione di Ted Perry, professore universitario di cinematografia, il quale, ispirandosi al capo indiano Seattle scrive:
“questo sappiamo, che tutte le cose sono legate come il sangue che unisce una famiglia (omissis) tutto ciò che accade alla terra, accade ai figli e alle figlie della terra. L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo la fa a se stesso.”
Agli uomini, secondo Capra, serve un nuovo paradigma , ovvero una visione olistica del mondo, considerare il mondo come un insieme integrato piuttosto che come una serie di parti separate; potremmo anche chiamarla una visione ecologica, se conferiamo all’aggettivo “ecologico” (vedi anche la sostenibilità dello sviluppo ecc.) un significato più ampio e profondo di quello solito. Una consapevolezza ecologica profonda, riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri individuali e sociali, noi tutti incidiamo sui (e in definitiva dipendiamo dai) processi ciclici della Natura. I due termini, olistico ed ecologico, hanno significati leggermente diversi, e l’aggettivo olistico appare in qualche modo meno appropriato per descrivere il nuovo modello. Avere una visione olistica, per esempio, di una bicicletta, significa considerare la bicicletta come un’entità completa e funzionante e, conseguentemente, comprende l’interdipendenza delle sue parti. La visione ecologica della bicicletta include anche questo, ma vi aggiunge la percezione di come la bicicletta si colloca nel suo ambiente naturale e sociale: da dove vengono le materie prime che la compongono, come è stata costruita, quanto la sua utilizzazione influisce sull’ambiente e sulla comunità che la utilizza ecc. Tale distinzione, tra solistico ed ecologico, diviene ancora più importante quando si parla di sistemi viventi, per i quali i rapporti con l’ambiente sono molto più determinanti. L’ecologia superficiale è antropocentrica, cioè incentrata sull’uomo. Essa considera gli esseri umani al di sopra o al di fuori della natura, come fonte di tutti i valori, e assegna alla natura soltanto un valore strumentale o di utilizzo. L’ecologia profonda non separa gli esseri umani –né ogni altra cosa - dall’ambiente naturale. Essa non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni che sono fondamentalmente interconnessi e interdipendenti. L’ecologia profonda riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli esseri umani semplicemente come un filo particolare nella trama della vita. In definitiva, la consapevolezza ecologica profonda è una consapevolezza spirituale o religiosa. Quando il concetto dello spirito umano viene inteso come la forma di coscienza in cui l’individuo prova un senso di appartenenza, di rapporto di connessione con l’intero cosmo, diventa chiaro che la consapevolezza ecologica è spirituale nella sua essenza più profonda. Perciò non sorprende che la nuova visione della realtà che sta emergendo, basata su una consapevolezza ecologica profonda, sia coerente con la cosiddetta “filosofia perenne” delle tradizioni spirituali, sia che parliamo della spiritualità dei mistici cristiani (vedi San Francesco d’Assisi), che di quella dei buddisti, o della filosofia e della cosmologia che sono alla base delle tradizioni dei nativi americani.
Le tesi di Fritjof Capra sono la formulazione più approfondita e rigorosa del “movimento di Seattle”, più che un rifiuto ideologico della globalizzazione, suggeriscono, da un punto di vista intellettuale, scientifico e, perché no, anche esistenziale, una sua versione alternativa più compatibile con le vere esigenze e, se vogliamo, più sostenibile.
Arne Naess, filosofo ed ecologista norvegese, ha definito l’ecologia profonda anche in un altro modo : “l’essenza dell’ecologia (o anche della psicologia) profonda sta nel porsi domande più radicali.” Questa è anche l’essenza del mutamento di paradigma. Dobbiamo essere preparati a mettere in discussione ogni singolo aspetto del vecchio paradigma. Alla fine non ci sarà bisogno di gettare via tutto ma, prima di saperlo, dobbiamo essere disposti a mettere in discussione ogni cosa. Cosi l’ecologia profonda, facendo proprie filosofie e mitologie, scienza e misticismo, pone domande radicali sui veri fondamenti della nostra concezione del mondo e sul nostro stile di vita, che sono moderni, scientifici, industriali, orientati alla crescita, materialistici. Essa mette in discussione l’intero paradigma da una prospettiva ecologica: dalla prospettiva dei nostri rapporti reciproci, con le generazioni future e con la trama della vita di cui siamo parte. Forse non è ancora troppo tardi per comprenderlo.