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Ebraismo

Questo documento è stato realizzato dalla dott.sa Francesca Merlo

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1. Dottrina o esperienza storica esemplare?

A differenza delle altre religioni, l’ebraismo non consiste in una dottrina ma è legato alla storia di un popolo. Nasce da un’esperienza di liberazione dalla schiavitù: l’esodo dall’Egitto, fatto da clan e famiglie patriarcali di stirpe semita sotto la guida di Mosè, intorno alla metà del XIII secolo a.C.

Stella di Davide
Stella di Davide

In Egitto si erano stanziati dei gruppi di ebrei, che ad un certo punto furono perseguitati: lavori duri e coatti, uccisione dei nati maschi in modo che la stirpe non continuasse. Gli oppressi invocarono Dio e lui inviò Mosè, un ebreo che era stato salvato di nascosto ed allevato alla corte del faraone. Gli ebrei erano militarmente nulli e disorganizzati di fronte al potentissimo stato egiziano; ma con l’aiuto di Dio, sotto il comando di Mosè, dopo alterne vicende riuscirono a fuggire. Carovane di intere famiglie s’incamminarono verso il mar Rosso per attraversarlo; stavano per essere raggiunti dall’esercito del faraone, quando Mosè per ordine di Dio sollevò il suo bastone e un vento impetuosissimo aprì le acque, le divise in due parti, così gli ebrei passarono; al passaggio degli inseguitori invece le acque si richiusero, sterminandoli.

Gli avvenimenti si possono collocare intorno al 1250 a.C.

I salvati camminarono attraverso luoghi deserti e inospitali per quarant’anni (cifra simbolica: quanto basta per imparare) e in quel cammino trovarono compattezza, diventando un popolo. Lungo il cammino della liberazione, verso una terra promessa ma non subito rivelata, spesso furono vicini a soccombere, per la fame e la sete. Dio li salvò ancora, facendo sgorgare l’acqua dalla roccia, mandando la manna e stormi di quaglie. Il racconto si trova nella Bibbia, nella prima parte del libro dell’Esodo.

A questo primo gruppo si aggiunsero altre tribù dello stesso ceppo etnico, che erano sempre rimaste in quella terra che sarà poi chiamata Palestina o terra dei Filistei. Misero in comune gli eponimi, la storia, le credenze. Le tribù si legarono attraverso la berìt o patto di alleanza, che veniva rinnovato annualmente. Fu proprio per stipulare trattati di alleanza che risalirono alla loro storia precedente e richiamarono alla memoria i patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe o Israele (quest’ultimo successivamente estenderà il suo nome all’intero popolo ebraico).

Questo è un popolo che sa ascoltare gli avvenimenti: comprende che essi, se guardati con attenzione, parlano . L’ascolto per l’ebreo si fa con le orecchie ma anche con gli occhi, col cuore e con la mente, con tutta la persona; è un prestare attenzione, fermarsi, riflettere per comprendere che cosa quel fatto o quel gesto possono rivelare: un gesto parla di colui che lo ha fatto. In questo modo l’ebreo comprende che una parola prodigiosa come quella dell’esodo, fatta di una lunga serie di eventi eccezionali costantemente a favore dei più deboli, non può venire che da Dio.
L’ebraismo si qualifica dunque, innanzitutto, come una religione dell’ascolto: c’è un popolo che ascolta ciò che gli succede.

A questo popolo che sa ascoltare, Dio offre di entrare in una relazione stabile. Questa relazione dovrà diventare un paradigma, un modello di ciò che viene offerto a tutti: osservando la storia di Israele, anche gli altri popoli devono poter comprendere qualcosa di Dio ed avere la possibilità di mettersi in relazione con Lui, ognuno rispondendo alla propria storia.
Questa relazione “esemplare” a cui Dio chiama Israele viene riconosciuta e interpretata entro la cultura del tempo e cioè nei termini della berit: il popolo ebraico entra in alleanza con Dio e il segno di appartenenza sarà la circoncisione dei maschi.
Questa elezione di Israele a partner diviene dunque la sua missione perenne, il motivo del suo stesso esistere come popolo (anche se, nella realtà dei fatti, ha spesso la tentazione della chiusura).
Israele è dunque un popolo sacerdotale, in cui l’appartenenza etnica sorregge quella religiosa e la religione dà il motivo d’esistere e di continuare ad essere popolo.

 


 

2. Popolo dell’Alleanza

Particolare tratto dalla Sinagoga di Sarajevo
Stella di Davide

Berit, tradotto alleanza o testamento è un modo codificato di mettersi in relazione, di antichissima origine pre-biblica, comune nell’area mesopotamica. L’alleanza tra tribù come il matrimonio erano regolati da berit, lo poteva essere anche un’amicizia. I contraenti si promettevano fedeltà reciproca, che si concretizzava in precisi impegni con scadenze fisse. L’impegno assunto era considerato vincolante quanto e più della parentela.

Il patto di alleanza veniva stipulato secondo uno schema fisso: i partner si presentavano, risalivano alla parentela comune o al lontano fatto storico che già aveva provocato l’amicizia dei padri (per la mentalità orientale nulla succede che non sia già successo), indicavano i reciproci obblighi, infine stabilivano le benedizioni (concreti e precisi doni che le due parti si sarebbero scambiate, in tempi stabiliti) e le maledizioni (punizioni mortali), per il partner fedele o viceversa infedele.
Il tutto veniva scritto due volte, su due tavole di pietra, una per ciascun contraente.
Seguiva il rito del giuramento: i contraenti passavano fra le due metà di un animale squartato invocando su di sé la medesima sorte della vittima, se non avessero adempiuto agli impegni presi.
Infine vi era l’invocazione ad una divinità, che sarebbe diventata la testimone del patto.
Si chiudeva con l’aspersione del sangue della vittima (nel sangue c’è la vita: era quindi un appropriarsi della vitalità necessaria per mantenere il patto) e un “sacrificio di comunione”: l’animale che era stato squartato veniva in parte offerto alla divinità, in parte mangiato dai contraenti.

La prima alleanza, stipulata tra Dio ed Abramo, è di tipo unilaterale: Dio gli promette una terra, una discendenza e non gli chiede in cambio nulla, se non di credergli e di tenersi in ascolto (in quanto la promessa si preciserà nel tempo, gradualmente, attraverso rivelazioni successive).
Con Mosè l’alleanza diviene bilaterale: Dio s’impegna a liberare e proteggere il popolo, il popolo s’impegna a vivere secondo Dio.

L’uomo di ogni età ha difficoltà ad esprimere l’esperienza religiosa, per cui assume modelli socio-culturali che si rifanno all’esperienza comune; tali modelli aiutano ad esprimere la realtà di un rapporto altrimenti inesprimibile.
La religione ebraica fa largo uso del modello dell’alleanza per comprendere tutta la sua storia. Ne interpreta gli inizi prodigiosi e i momenti di trionfo come benedizioni connesse all’osservanza del patto, le sconfitte e le deportazioni come maledizioni per le infedeltà.

L’alleanza però non dice tutto di questa relazione, che è molto più grande: lo stesso ebraismo avverte il bisogno di ricorrere ad altri modelli come la paternità, la maternità, la sponsalità, l’amore del contadino per la sua vigna o del vasaio per la sua opera. Saranno soprattutto i profeti ad invitare a non irrigidirsi su un solo schema per interpretare l’agire di Dio: Osea, per esempio, vedrà nella sua esperienza sponsale e paterna il “segno” dell’amore donativo, misericordioso e perenne di Dio, Geremia ed Ezechiele parleranno di una nuova alleanza scritta non più su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo.

 


 

3. Una fede che è risposta al Dio della storia

Sinagoga di Sarajevo
Sarajevo, Sinagoga

Non sono molte, nell’ebraismo, le verità dottrinali indiscusse. Potremmo riassumerle così: Dio è unico e ha dato la Torah. Per il resto, più che l’ortodossia è importante l’ortoprassi: rimanere fedeli alla Legge del Signore. Nella Bibbia si preferisce parlare di Dio raccontando ciò che ha fatto oppure per immagini, che ne rivelino l’agire, la guida benefica, il rapporto con il popolo che si è scelto. Più tardi, quando Israele verrà a contatto con il mondo greco, il mistero di “chi sia” Dio sarà lasciato alle discussioni dei filosofi.

Nel libro della Genesi vi sono due diversi racconti della creazione, nella storia di Noè vi sono doppioni e piccole contraddizioni, e così avviene in molti altri passi della Bibbia: tradizioni diverse sono riportate l’una accanto all’altra se non intrecciate insieme, quasi a dire che non vi è una storia monolitica, un senso dato e definitivo; il credente viene interrogato dai fatti, deve dare la sua partecipazione, la sua interpretazione. La Bibbia dà l’orientamento, interpreta autorevolmente ma non esprime una dottrina, piuttosto rivela le tracce di un rapporto da cercare continuamente nella storia dell’uomo.

In epoca molto più tarda (XII secolo d.C.) il filosofo Moisè Maimonide nel suo Pirush Hamishnayot (Sanhedrin, cap.10) formulò 13 principi che possono riassumere i contenuti della fede ebraica:

Il fatto di trasformare in principi il succo di una lunga esperienza storica fu visto come un pericolo per la fede, che deve essere sempre aperta all’ascolto e non irrigidirsi in definizioni o trasformarsi in filosofia; pertanto il tentativo di Maimonide suscitò le critiche dei rabbini e i “13 principi” furono ignorati dalla maggior parte delle comunità ebraiche per diversi secoli.

Col tempo, invece, vennero largamente condivisi e oggi sono pienamente accettati dagli ebrei della corrente ortodossa. Il testo fu trasformato in preghiera e come tale entrò nel canone del Siddur (il libro di preghiere comunitarie dell’ebraismo).

 


 

4. La storia e la “legge”

Particolare tratto dalla Sinagoga di Sarajevo
Stella di Davide

I popoli vicini - Cananei e Filistei - comprendevano e interpretavano il mondo attraverso la ciclicità della natura; anche le esperienze storiche importanti venivano mitizzate, collocate alle origini e ripetute in modo rituale, in modo da sottrarle alla consumazione e al degrado del tempo. Alle origini era posto il tempo perfetto e il rito permetteva un ritorno a quell’inizio ideale dove tutto è ordine e armonia.

La visione del mondo dell'ebraismo, invece, non è ciclica ma lineare: si va verso un futuro carico di realtà più ancora del passato e dello stesso presente. Il cosmo è creato da Dio con un finalismo, ha scritto in sé un progetto che richiede anche la collaborazione dell’uomo. La realizzazione è progressiva, per cui l’uomo vive tra promessa e adempimento (adempimenti sempre parziali, fino al compimento definitivo nell’escatologia); anche il messianismo può essere compreso come un aspetto di questo vivere la storia proiettati verso un futuro più pieno.

Alla dinamicità dell’esperienza storica si accompagna però anche la necessità della legge. Essere popolo richiede delle norme comuni; anch’esse vengono date e comprese secondo lo schema dell’alleanza, quella bilaterale proposta a Mosè.

La cosiddetta “Legge” non ha però il significato che noi diamo a tale parola; Israele ha ben chiaro che si tratta d'istruzioni che Dio dà, come un padre che si cura del figlio. Osservando queste istruzioni, il popolo decide di credere a Dio e in tal modo di entrare e di stare nella sfera della vita come gli è proposta da Lui; fidandosi di Dio sceglie di non morire come popolo.
Infatti, secondo il costume di allora, connesse all’osservanza o all’inosservanza delle clausole dell’alleanza scattano le benedizioni o le maledizioni, ossia la prosperità o la morte del popolo. Questo spiega anche l’ottica con cui sono state scritte molte pagine bibliche che altrimenti presenterebbero un Dio incomprensibilmente severo e crudele.

La Bibbia riporta due edizioni delle “dieci parole” o “dieci comandamenti” dell’alleanza (in Esodo 20, 1-17 e Deuteronomio 5, 6-2) con poche varianti; si possono far risalire rispettivamente al periodo nomade e a quello sedentario. In questa duplicità è interessante notare come la morale si evolva con l’evolversi del pensiero antropologico, della mentalità e del costume, pur rimanendo ferma nei principi fondamentali.

Le “dieci parole” sono espresse in una forma verbale che noi non possediamo, un futuro con valore di imperativo, quasi a dire: farai questo, se vorrai vivere. E’ significativo che siano inserite dentro al racconto di interventi a favore dell’uomo: sono date dopo l’uscita dall’Egitto, quasi “istruzioni per l’uso” della libertà, sono seguite dai doni per la sopravvivenza nel deserto: l’acqua che sgorga dalla roccia, la manna e le quaglie.

Nella Bibbia vi sono anche altri codici, meno estesi, e molte parole normative sparse. Ma il popolo ebreo ha sempre ritenuto Torah o “Legge” tutto il Pentateuco, compresi i miti e i racconti, perché tutto costituisce “insegnamento”.

La spinta verso il futuro è accompagnata quindi da un impegno religioso e morale che ha il suo fondamento nella memoria dei fatti di liberazione e si comprende nell’ambito dell’alleanza. Per cui l’ebraismo è una religione che proietta e interpreta l’uomo in tutta la dimensione del tempo, dalle origini al futuro escatologico. E forse ciò che è meno denso di realtà, in questa prospettiva, è proprio il presente (non a caso nella lingua ebraica il tempo presente manca).

 


 

5. Le “Dieci parole” o “Dieci comandamenti”

Particolare tratto dalla Sinagoga di Sarajevo
Stella di Davide

Queste istruzioni hanno un prologo: Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall’Egitto dove tu eri schiavo: prima di tutto Dio si presenta, ma non con una definizione astratta, bensì con un richiamo alla concretezza dell’esperienza. Prima di “dire” Dio ha fatto e il suo “fare” è stato una liberazione. Con questo spirito dunque si dovranno leggere le Dieci parole.

1. Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna… Non si tratta solo di non adorare gli dèi dei popoli vicini, è molto di più. Farsi un’immagine materiale comporta sempre anche un’immagine mentale, quello che noi chiamiamo un concetto: “Dio è questo”. Ma Dio è sempre al di là della mente dell’uomo, non sta in una specie di carta d’identità da tirar fuori al momento opportuno; e la fede è un rapporto, non un pacchetto di verità date, fisse. Farsi schemi mentali rigidi porta all’integralismo e questo non fa “vivere” un popolo.

2. Non pronuncerai invano il nome del Signore… Non strumentalizzare il nome di Dio adoperandolo in-vano cioè nel vuoto, dove non c’è. Guerre, punizioni, minacce e ricatti fatti in nome della religione (nella grande come nella piccola storia, anche familiare) trascinano Dio dove in realtà è l’uomo che vuole andare; i potenti che usurpano il nome di Dio per imporsi, in realtà non rispettano né Dio né l’uomo.

3. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo… Si santifica il sabato con l’astensione dal lavoro che viene estesa anche ai sottoposti - familiari, schiavi, forestieri e lo stesso bestiame - per ricordare che l’uomo è più delle cose e dei beni materiali; sciogliendolo dalla fatica almeno per un giorno su sette, si lascia emergere che l’uomo è soffio divino, viene da Dio. In Esodo la motivazione è espressa così: fa’ come Dio che si è riposato nel settimo giorno, dopo la creazione. In Deuteronomio questo “fare come Dio” riporta l’Israelita alla liberazione dalla schiavitù dell’Egitto: Dio ha liberato i tuoi padri, tu nel giorno di sabato attualizza questa liberazione e falla giungere nel presente, a chi ti è vicino.

4. Onora tuo padre e tua madre o, più esattamente, “dà il giusto peso” (kabod) ai genitori nelle varie situazioni ed età della vita: da giovane li obbedirai, in età matura non li abbandonerai, vecchi e nel bisogno. Tener conto degli anziani, ascoltarne la sapienza aiuta un popolo a “vivere”.

5. Non uccidere; la norma è volta specificamente a difendere il debole, in una civiltà dove non esisteva il diritto moderno per cui i forestieri, gli orfani e le vedove, non potendo contare sulla famiglia o sulla tribù che li avrebbe vendicati, erano in balia di ogni prepotente. Come a dire: se non sarà la paura dell’appartenenza tribale a fare da deterrente, sappi che l’indifeso è parte della famiglia stessa di Dio.

6. Non commettere adulterio: rivolto alla donna sposata, alla quale era proibito qualsiasi rapporto fuori dal matrimonio.

7. Non rubare: si riferisce primariamente al furto della persona. Il comando nasce in età di nomadismo, quando l’unico bene posseduto era la propria persona; il rapimento e la riduzione in schiavitù erano piuttosto frequenti. Successivamente e per estensione il comando interessò anche i beni, in quanto possibilità di avere sussistenza e dignità personali. Questa norma non è né a favore né contro la proprietà privata, ma intende garantire quel bene intangibile e irrinunciabile che è la propria persona; “la libertà non dev’essere condizionata da circostanze che la diminuiscano”.

8. Non pronunciare falsa testimonianza: la legge ebraica richiedeva che in ogni processo ci fossero almeno due testimoni e la sentenza, praticamente, dipendeva dalla loro deposizione. Anche a quel tempo però i testimoni potevano essere comprati. Ne veniva minata così anche la fiducia che si poteva avere nella giustizia, nell’autorità.

9. (Esodo): Non desiderare la casa del tuo prossimo: non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo. È proibito “desiderare” (ossia concretamente progettare) per avere indebitamente i beni di un altro; questi beni vengono elencati e al primo posto vi è la moglie, come un bene che fa parte della “casa”.
In Deuteronomio si registra un’evoluzione del costume per cui la donna viene citata a parte. Il 9° comandamento di Esodo qui si trova suddiviso in due, il 9° e il 10°:

9. (Deuteronomio): Non desiderare la moglie del tuo prossimo: è rivolto all’uomo, cui è proibito l’adulterio; egli poteva avere più mogli e concubine (poteva andare dalla prostituta, sebbene questo fosse considerato un male); non poteva però insidiare la moglie di un altro.

10. (Deuteronomio): Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.
Rimane la proibizione di “desiderare” i beni di un altro.

Nell’insieme, queste istruzioni non sono che un esplicitare quello che per l’israelita è la fonte di tutti i comandamenti: l’ascolto di Dio nella storia (amore di Dio) e l’amore del prossimo.
Nel libro del Deuteronomio leggiamo: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza” (Dt 6, 4-5).
E nel libro del Levitico, dopo una serie di precetti relativi alla condotta verso il prossimo, si conclude: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19, 18).

Quello che noi diciamo “prossimo” traduce rea’ cioè “gli altri”: coloro che incontri o ti sono vicini, ma non fanno parte della tua parentela. C’è in questo vocabolo un’apertura universalistica anche se a volte, in alcuni testi (soprattutto Levitico e Deuteronomio) e successivamente, nelle interpretazioni giudaiche, è forte la spinta a restringere la cerchia dei prossimi ai soli “fratelli” israeliti.


 

6. Il Dio d’Israele

a. Il nome di Dio

Particolare tratto dalla Sinagoga di Sarajevo
Stella di Davide

Secondo il libro dell’Esodo, Mosè chiese a Dio il suo nome e Dio glielo rivelò: Yahwè (che per rispetto alla sensibilità ebraica scriveremo Yhwh). Non si tratta però di un vero e proprio nome, piuttosto è l’affermazione di una presenza, perché Yhwh significa “Io sono colui che sono”; frase a lungo interpretata da teologi e filosofi in senso metafisico (Io possiedo l’Essere in pienezza), mentre gli esegeti e studiosi della Bibbia la interpretano in senso storico, conformemente al significato ebraico del verbo essere (trovarsi in un luogo o situazione). Io sono colui che sono [presente] in [mezzo agli uomini, nella loro storia].

Nella mentalità di quel tempo il nome esprime la persona e possedere il nome significherebbe possedere la persona; in ogni tempo è forte la tentazione di “possedere” il divino per piegarlo ai propri scopi, ma Dio non rivela a nessuno, nemmeno a Mosè, una sua ipotetica essenza. Non si presta ad essere ingabbiato in schemi e definizioni, ma si dice presente e fedele all’uomo. Per l’ebreo, Dio è una Presenza sempre da ascoltare, mai compresa una volta per tutte, come fosse una verità statica, oggettuale. È una Presenza dinamica e dice amicizia, relazione; come in ogni relazione anche umana, dice cammino di conoscenza e di approfondimento.

b. Un Dio che sceglie l’uomo e cammina con lui

Fin dagli inizi l’iniziativa è di Dio: è lui a scegliersi un popolo, a farsi conoscere come liberatore, a proporgli l’alleanza, a dargli la Torah ossia quegli insegnamenti autorevoli che gli permettono di essere una collettività che “vive”. Non è il Dio di un luogo ma di un popolo; e quando il popolo va in esilio, Dio va in esilio con lui.

L’ebraismo, avendo chiaro il concetto di trascendenza (anche se non lo esprime con categorie filosofiche), quando vuole indicare la presenza di Dio tra gli uomini non parla direttamente di Dio ma di nube, o angelo, o gloria, o Sapienza: un qualcosa che insieme rivela e cela Dio all’occhio umano. Col popolo nel cammino dell’esodo c’è una colonna di nube di giorno, a proteggere dall’arsura; essa si fa fuoco nella notte, a illuminare e permettere il cammino. È la presenza di Dio, che accompagna e protegge.

Pur ponendosi davanti all’uomo per indicargli la via o sopra all’uomo per proteggerlo, pur essendo onnisciente, onnipotente, onnipresente, Dio non assorbe l’io umano ma rimane sempre un tu, partner di una alleanza. Trascendente e dialogante.
La relazione viene compresa sempre più come dettata e retta dall’amore. Le immagini si susseguono suggestive: Dio è goel (il parente prossimo che riscatta e vendica), è padre, ha viscere materne, è amico, infine sposo. Tra Dio e il suo popolo c’è comunione di vita come tra sposo e sposa, non però come nel mito cananeo in cui il dio-sposo feconda la terra della quale è Baal (Signore e marito), mito che viene rinnovato ciclicamente attraverso il rito e la prostituzione sacra. Il Dio d’Israele è lo Sposo del popolo e l’amore che li unisce ha una progressione e una storia, perché Dio si rivela gradualmente, secondo le capacità di comprendere dell’uomo ed anche perché il popolo è spesso infedele. Ma Dio ne ha misericordia e anche quando punisce lo fa per correggere e far maturare una consapevolezza (temi profetici sviluppati soprattutto da Osea, Deutero-Isaia, Geremia, Ezechiele).

Il luogo della comunione Dio-uomo è la storia d’Israele, una storia complessa, fatta di perdite e ritrovamenti. Il Cantico dei cantici ne è il racconto metaforico, sotto forma di canti nuziali e d’amore profano. L’amore personale e carnale che lega uomo e donna, infatti, diviene possibilità concreta e personale di sperimentare quella comunione; è luogo privilegiato, rivelativo della presenza di Dio. Proprio in quanto specchio della sponsalità divina, dovrebbe assumerne anche le caratteristiche di amore donativo e fedeltà perenne.

c. un Dio unico e “geloso”

Si comprende in tal modo che Dio è unico ed è anzi un Dio “geloso”: come uno sposo preoccupato che la sposa non faccia cattivi incontri, con amanti interessati che la travierebbero. Dunque nessun idolo di fronte a Lui, a schiavizzare quell’Israele cui Egli ha dato la liberazione.

Nel confronto con la vita reale e poi con il manicheismo e le dottrine gnostiche, Israele si pone il problema del male. Rifiutando ogni forma di dualismo, riconosce che il male morale viene dalla libertà dell’uomo (Genesi 3), mentre il dolore e le avversità non possono risalire ad altri che a Dio; sono il mistero della creatura di fronte al Creatore (Giobbe, Qoelet e libri sapienziali in genere). Satana non coincide col principio del Male opposto al principio del Bene, ma è solo una creatura. A questo punto Israele, avendo rispetto a Dio la dignità di partner, può affermare, senza tema di essere irriverente, che la sofferenza innocente non assolve Dio; tema molto sentito soprattutto in tempi moderni, nei racconti dei chassidim.
In ogni caso la sofferenza è sentita come preziosa, perché è un’espiazione vicaria e va a favore dell’uomo peccatore (interpretazione evidente in modo particolare in Isaia, capp. 42-53).

d. re d’Israele

La regalità divina è un’idea comune a tutte le religioni dell’Oriente antico. Le mitologie se ne servono per conferire un valore sacro al re umano, luogotenente terreno del dio-re. Attraverso la sua mediazione giungono tutte le benedizioni divine, compresa la fertilità della terra e la fecondità umana ed animale.
Gli ebrei pervengono all’idea della regalità quando da nomadi divengono sedentari e la lega di tribù si trasforma in monarchia: allora il tema dell’alleanza trova la sua traduzione ottimale in quello della regalità divina, al quale tuttavia conferisce un contenuto diverso rispetto ai popoli vicini. Non ne trae alcuna conseguenza per le sue istituzioni politiche: Yahwé regna su Israele, ma nessun re umano incarna la sua presenza in mezzo al popolo. Egli vuole che la sua regalità sia riconosciuta in modo effettivo mediante l’osservanza della Torah: il regno di Dio ha dunque carattere religioso e morale, non politico.
Ma i re, di fatto, spesso sono “empi”; i profeti allora avranno il compito di riportarli al loro ruolo subordinato nei confronti della legge di Dio. E quando la monarchia israelitica crolla essi annunciano che la regalità di Dio sarà restaurata alla fine dei tempi ed anzi si estenderà da Israele a tutta la terra: in un futuro escatologico, a Gerusalemme converranno tutte le genti per adorare il vero unico Dio.

 


 

7. La risposta di Israele

a. La concezione dell’uomo

Il mondo semita non s’interessa all’intima natura (la filosofia direbbe all’essenza) delle cose, ma le coglie nella loro funzione e nei reciproci rapporti; l’uomo è visto in relazione a Dio e questa relazione fondante sostiene le relazioni con i suoi simili e con il mondo intero.
Torah in marmo dalla Sinagoga di Sarajevo
Torah in marmo
L’ordine del mondo non è ad esso immanente ma è dato dall’essere “parola di Dio”. Tale parola creatrice è il primo atto della salvezza: la salvezza quindi è universale.

L’ebraismo non sposa un’antropologia ma ne contiene diverse, conformemente ai diversi sistemi di pensiero che possono essere assunti; la prospettiva prevalente nella Bibbia considera l’uomo come un essere unitario, che può essere visto da più aspetti: egli è (non ha) anima, corpo, spirito e cioè può essere visto come io vivente, essere relazionale e mortale, emanazione del soffio divino che gli ha dato la vita. Ma nell’incontro con la filosofia greca il libro biblico della Sapienza può assumere categorie platoniche e parlare dell’uomo come composto di anima e di corpo.

L’uomo innanzi tutto è “immagine e somiglianza” di Dio e cioè ne è il luogotenente sul resto del creato. È costruttore con Dio, coopera al progetto iniziato con la creazione e questo lo apre alla storia. La storia tutta, in questa prospettiva, è “storia della salvezza”, segnata dal rapporto con Dio di cui Israele (con le sue fedeltà e infedeltà) è lo specchio. La concezione dell’uomo è quindi fondamentalmente positiva.

L’uomo è creatura: quando valica questo limite non si realizza ma guasta il rapporto con Dio, con i suoi simili e con l’intero creato. Il libro della Genesi parla di Adamo ed Eva nell’Eden che, mangiando il frutto dell’albero della “conoscenza del bene e del male”, intendono decidere del bene e del male, al di sopra di tutto e di tutti. Questo racconto del peccato posto alle origini sta proprio a indicare la radice di quella situazione di degrado che l’uomo di ogni tempo riscontra continuamente intorno a sè: il male entra nel mondo nel momento in cui l’umanità vuole farsi “dio di se stessa”, rifiutando un Principio etico superiore all’interesse personale. Con linguaggio di oggi potremmo dire: è delirio di onnipotenza, rifiuto di riconoscere il limite.

Riflettendo sulla storia, Israele vede il male propagarsi da una generazione all’altra, e portare con sé un insieme di mali. Risalendo all’indietro, fino alle origini, interpreta anche la realtà del male entro lo schema dell’alleanza: Dio è sempre stato alleato dell’umanità cui aveva dato le sue benedizioni, ma l’umanità primitiva (Adamo ed Eva) è venuta meno al patto e si è attirata le maledizioni connesse all’inadempienza.

Nonostante tutto Dio benedice, mai maledice gli esseri umani; annuncia le tristi conseguenze del loro “farsi dio” (maledice il serpente e la terra), ma non rompe l’alleanza stipulata. È un Dio che per definizione - l’unica che si sia mai dato - è presente nella vita della sua creatura; rimane quindi fedele al patto “per amore del suo Nome”, non perché il partner sia altrettanto fedele. Anzi, è mosso a compassione dalla sua nudità (debolezza creaturale): “il Signore Dio fece all' uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen 3,17).
Dio riprende il dialogo interrotto da Adamo ed Eva, interrotto ancora dall’umanità al tempo di Noè; dà segni di fedeltà all’uomo: l’arcobaleno per esempio, è l’arco da guerra che Dio ha deposto tra le nubi, come segno del suo impegno a non distruggere l’umanità, anche quando l’umanità se lo meriterebbe (L'arco sarà sulle nubi... per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra - Gen 9,16, dopo il diluvio).

Infine si sceglie un popolo come portavoce e gli dà la Torah, perché “viva” e mostri anche agli altri la via della vita. L’umanità e lo stesso Israele rompono continuamente il patto, ne pagano le conseguenze, ma Dio offre sempre un’altra opportunità alla sua creatura.
Fin da ora chi osserva la Torah si rende libero dalle conseguenze del primo peccato, origine ed archetipo di tutti i peccati esistenti. Ma solo con l’avvento del Messia il male sarà sconfitto definitivamente.

b. L’osservanza e la Torah orale.

Dunque, le istruzioni o “parole” di Dio non sono contenute in un codice legislativo completo e sistematico, ma sono sparse nella storia del popolo d’Israele e del suo rapporto con Yhwh.
La Torah ne è il documento primario ed è la sorgente delle 613 mitzvot o precetti e della maggior parte della sua struttura etica.
La Torah scritta è contenuta nei primi cinque libri della Bibbia o Pentateuco.
Dal I secolo ad oggi la Torah viene letta tutta nella sinagoga, suddivisa nei sabati di un anno (è prevalsa la tradizione babilonese, che ne legge porzioni sabbatiche più lunghe; la tradizione palestinese leggeva la Torah nel giro di circa tre anni); i libri profetici ne sono considerati un commento autorevole e vengono letti come commento alla Torah, i salmi sono soprattutto pregati come introduzione alla liturgia e infine i libri di Ester, Cantico dei Cantici, Ruth, Lamentazioni, Qohelet, detti “i Cinque Rotoli”, vengono letti in occasione in occasione della Pasqua e di altre solennità.
In tutte le religioni rivelate o “del libro” è presente anche una Tradizione, che completa il testo scritto, attualizzandolo nelle mutevoli condizioni storiche. Nell’ebraismo, inoltre, essa risponde alla necessità di esplicitare alcune norme che nella Bibbia sono soltanto citate, sottintendendo l’esistenza di altre norme di tipo applicativo: nel libro del Deuteronomio, ad esempio, troviamo il comando “Potrai ammazzare il bestiame grosso e minuto nel modo che io ti ho prescritto” (Dt 12, 21) ma il modo prescritto da Dio nella Bibbia non si trova.
Di qui la necessità di ammettere una Torah orale accanto a quella scritta, parimenti antica e autorevole.

Nel corso del tempo la Tradizione si arricchì di insegnamenti e sempre più fu sentita come capace di dare vita e rilevanza al testo sacro. Divenne importante in quel trapasso culturale e religioso che fu l’esilio in Babilonia e il nascere del giudaismo; fino alla conquista romana fu trasmessa a voce, ma le persecuzioni, le diaspore, le dispersioni delle scuole consigliarono di metterla per iscritto e allora gradualmente ne nacque il Talmud.
La trasmissione e lo studio della Torah (scritta ed orale) costituiscono fino ad oggi un obbligo fondamentale per ogni ebreo. Fino al 70 d.C. l’ebraismo era tenuto unito anche dal tempio e dall’autorità, mentre oggi la Torah è rimasta l’unico elemento che sicuramente tiene unito l’ebraismo. Riporta alle proprie radici e alla propria identità un popolo altrimenti disperso; per questo viene studiata da tutti gli ebrei, anche non credenti, perché anch’essi la ritengono patrimonio irrinunciabile.

 


8. L’evoluzione dell’ebraismo: nasce il giudaismo

a cura della dott.sa Francesca Merlo

a. l’esilio a Babilonia e il post-esilio

Nel 587 a.C. l’imperatore babilonese Nabucodonosor entra in Gerusalemme, distrugge il tempio, fa strage e deporta molti ebrei. A Babilonia essi vivono una situazione tristissima (cfr salmo 137): la perdita della libertà, lo smembramento delle famiglie, il duro lavoro nelle campagne. La cultura in cui sono immersi è completamente diversa: devono imparare l’aramaico (la lingua ebraica cesserà per sempre di essere parlata), un diverso il modo di computare il tempo, di vivere, di pensare. Le domande che si fanno, e che vengono loro fatte (cfr salmo 42-41), non hanno risposta immediata né facile: dov’è il tuo Dio? Se ti ha scelto, perché poi ti ha abbandonato?
È in crisi non solo la fede, ma l’identità del popolo.

Sorgono in questo periodo grandi personalità di profeti e sacerdoti; essi interrogano il passato e risalgono fino alle più antiche tradizioni scritte ed orali, per trovare in esse una risposta. Comincia a farsi strada la riflessione che il culto ci può essere anche senza il luogo sacro, come nei tempi antichi; al sacrificio dell’animale offerto nel tempio si può sostituire il sacrificio della propria persona e questo avviene attraverso la circoncisione, il rispetto del sabato, l’ascolto della Parola: tre segni di identità anche per chi è in diaspora. E se materialmente manca il testo dellaTorah, i sacerdoti ricordano che tutta la storia fin dalla creazione del mondo è “parola di Dio” da “ascoltare” (proprio in questo periodo dalla scuola sacerdotale nasce il racconto della creazione posto all’inizio del libro della Genesi, in cui Dio crea il mondo “dicendo”).

Nel 538 a.C., grazie alla conquista persiana, agli ebrei è concesso di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. Il culto ora ha due anime: il culto templare, con i sacrifici quotidiani di animali e il culto sinagogale, in cui l’ascolto della Torah prende il posto del sacrificio cruento.
Il culto sabbatico nella sinagoga porta a un rinnovamento dell’ebraismo, che gli permetterà di sopravvivere anche nella situazione di diaspora (dispersione) in cui gli ebrei, d’ora in avanti, sempre più si troveranno a vivere. Viene istituito anche un nuovo importante organismo, il Sinedrio: la corte suprema politico-religiosa che fissa la dottrina e stabilisce la liturgia, ha il potere di votare le leggi e una milizia propria, può condannare a morte (al tempo di Gesù Cristo, però, non può materialmente eseguire la condanna).
Questa ri-organizzazione dell’ebraismo concentrata sul culto, sulla legge e sulla riflessione dottrinale, che ruota sempre più attorno alla sinagoga, prende il nome di giudaismo.

Il giudaismo del post esilio è un mondo frammentato, per più motivi. Politicamente Israele è una provincia dell’impero persiano e la nazione, come unità etnica e culturale su un territorio preciso, è smembrata: comunità giudaiche si trovano disseminate in tutto il Medio oriente, fino all’India. Vi sono tre centri di maggiore urbanizzazione ebraica: Babilonia, Gerusalemme, l’Egitto (in cui successivamente il centro sarà la città di Alessandria).

All’interno vi sono numerose correnti: farisei, sadducei, esseni, battisti, zeloti, samaritani ed altre ancora.

La riflessione rabbinica vede nella diaspora un dono: Dio ha aperto i confini della “terra promessa” e in questo modo salva il suo popolo dall’estinzione: d’ora in avanti, anche quando sarà perseguitato e decimato in un luogo, sopravvivrà in un altro luogo.

b. Il giudaismo dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.

La presa di Gerusalemme del 70 d.C. vede la nuova distruzione del tempio da parte dei romani e lascia una popolazione decimata e stremata. Sadducei, esseni ed altri gruppi sono scomparsi nell’eccidio o sono stati venduti come schiavi, il Sinedrio non esiste più.
A Iavneh (Iamnia in greco Ιαμμια nel 90 d.C. si raduna un gruppo di rabbini farisei. Sono loro a prendere in mano la situazione: costituiscono un nuovo Sinedrio, stabiliscono un calendario liturgico unico, unificano il culto della sinagoga e ne fanno il perno della vita religiosa. Inoltre fissano il canone delle Scritture, e vi annoverano solo i libri scritti in ebraico (39 libri), mentre i giudei di Alessandria ne conoscono anche altri sette, scritti o conosciuti in greco (la Bibbia tradotta dai rabbini nel III-II secolo a.C., detta dei Settanta, ne ha 46; questa differenza la ritroviamo ancor oggi tra il canone dei cattolici e quello dei protestanti).

I rabbini di Iamnia devono affrontare anche il problema del rapporto col cristianesimo, che si era diffuso in Palestina, in Asia Minore, in Grecia, in Egitto.
Per diversi anni il cristianesimo era apparso come una setta interna: Pietro e Giovanni andavano a pregare al Tempio, Paolo predicava nelle sinagoghe. I cristiani di origine ebraica si erano sempre ritenuti l’espressione del vero ebraismo, quello che aveva riconosciuto l’atteso Messia (in greco Cristo); in Gesù essi vedevano il compimento delle profezie antiche, fatte ai loro padri.
Essi adoperavano la Bibbia dei Settanta sia perché il greco era ormai la lingua più diffusa e più compresa, sia perché quella traduzione aveva maturato certi vocaboli esplicitandoli in senso messianico e quei brani calzavano perfettamente con la persona di Gesù.

I rabbini di Iamnia espellono gli ebreo-cristiani dalla sinagoga, proibendo loro di partecipare al culto; nelle diciotto benedizioni introducono una maledizione contro gli “apostati, eretici, insolenti” cioè loro, i cristiani. Tolgono dal culto sinagogale il testo dei Settanta e incaricano Aquila, Simmaco e Teodozione di fare altre tre traduzioni greche.
Gli ebreo-cristiani entrano allora a far parte delle chiese cristiane di origine pagana, che negli anni ’90 sono assai più numerose della chiesa-madre. Rimane l’amarezza di essere stati rifiutati dai giudei, nonostante l’appartenenza ebraica.

In questo lavoro di ricostruzione e identificazione compiuto dai rabbini farisei, le tradizioni orali acquistano sempre maggior importanza e gradualmente vengono messe per iscritto fino ad arrivare, nel corso di qualche secolo, alla composizione del Talmud.

c. La perfezione rituale e lo spirito della Legge

Si è visto che la “Legge” per l’ebreo non è l’impersonale esigenza di una collettività ordinata, ma è la Torah che viene da Dio, rimanda all’Alleanza e al rapporto con Dio. Nel giudaismo i rabbini la caricano ancor più di significato e vedono in essa la stessa Presenza, da coltivare e custodire con rispetto assoluto.
L’ebraismo aveva sempre “ascoltato”la presenza di Yhwh nella storia, aveva fatto esperienza di Lui in un rapporto liberante, dinamico, mai dato una volta per tutte ma sempre da cercare nel proprio vissuto; nel giudaismo, invece, il bisogno di non perdere la propria identità in rapporto agli altri popoli porta a fissare e codificare.
L’ebraismo inoltre, a differenza delle altre religioni, aveva colto la santità di Dio non tanto come separazione dall’uomo ma come pienezza di vita che trabocca e traboccando si comunica; nel giudaismo invece c’è un ritorno al sacro come mondo di Dio, separato dal profano. Il culto prende il primato sulla vita.

È dopo l’esilio babilonese del VI secolo a.C. che l’ebraismo compie la svolta, irrigidendo e moltiplicando i precetti di comportamento e le norme della perfezione rituale. Il giudaismo, mentre da una parte assolve al compito di mantenere compatto un popolo disperso attraverso il recupero puntiglioso delle proprie radici, dall’altra cade nel pericolo del legalismo, che svuota il vero significato della Torah, il suo essere “per l'uomo”.
L’osservanza scrupolosa di numerosissimi precetti può nascondere la volontà di garantirsi e quasi comprare le benedizioni divine, dimenticando che Dio è sempre al di là di ogni schema e che la sua benevolenza è sempre un dono, mai un diritto. Fondamentalmente è questo il rimprovero che il rabbino Gesù di Nazaret fa ad alcuni farisei del suo tempo (cfr. per esempio vangelo di Marco 2,27 e 7,1-13).

Lungo tutta la storia biblica i profeti hanno richiamato costantemente, fortemente, la richiesta di Dio di attuare la giustizia e la misericordia nei confronti del prossimo, senza cui l’osservanza degli obblighi cultuali diventa un’inutile maschera, non più gradita a Dio.
Solo due citazioni:

Al fondo della sensibilità giudaica c’è però il senso della assoluta santità di Dio: Dio è santo ed è per questo che chiede al suo partner umano la santità. La perfezione rituale del giudaismo richiede molta attenzione, quindi è segno di rispetto e di amore nei confronti di Dio; la costante attenzione ai precetti è segno di una vita che, in ogni suo particolare, è sotto lo sguardo di Dio. E all’osservante della Legge è sempre richiesta l’adesione interiore, oltre all’osservanza formale.

Una chiave di comprensione del giudaismo può trovarsi in una frase della Mishnah (prima raccolta delle tradizioni orali che stanno alla base del Talmud) dove si raccomanda: “fate una siepe intorno alla Torah” (Mishnah, Avot 1,1).
La preoccupazione che gli insegnamenti di Dio non vengano disattesi, fa sì che si eriga intorno ad essi una serie di precetti, una “siepe” che salvaguarda dalla possibilità di trasgredire anche inavvertitamente la volontà divina.
L’esempio più noto riguarda un precetto alimentare (Es 23, 19): Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre. Il significato originario probabilmente è di non uccidere un capretto quando ancora allatta. Nel giudaismo il precetto viene preso alla lettera e allora, in una civiltà non più contadina, in cui non sappiamo di quale capra sia figlio un determinato capretto acquistato in macelleria, è previsto che in cucina non si mescoli mai nessun ingrediente che viene dalla carne con nessun ingrediente che viene dal latte.

 


9 . Il giudaismo nell’era cristiana

Chi ha salvato dalla distruzione culturale e religiosa il giudaismo nella diaspora è stato il gruppo dei farisei e in particolare i rabbini. Attraverso la raccolta delle tradizioni orali, ammettendo la possibilità di molteplici interpretazioni all’interno dello stesso testo, hanno fatto sì che il giudaismo potesse adattarsi ai tempi e alle situazioni nuove.

Il popolo ebreo nella storia è stato sempre in situazione di diaspora, continuamente sottoposto alla sollecitazione e al confronto, anche alla persecuzione, di culture diverse. Forse per questo non esiste un ebraismo che ricapitoli tutte le differenti espressioni storiche della sua fede, ponendosi come dottrina ufficiale.
Pur non occupandoci qui di storia, ci sembra indispensabile almeno toccare alcuni punti.

 

  1. Una considerazione di carattere generale, attraverso le parole del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni:
    “L'odio verso gli ebrei precede il cristianesimo: essi, infatti,erano spesso accusati nell'antichità di odiare il genere umano per la fedeltà alla loro religione e per il rifiuto di aderire ai costumi nazionali dei popoli che li sottomettevano e con cui convivevano. Quando si affermò la religione cristiana, pur essendo fortemente legata alla rivelazione ebraica, alla stessa Bibbia ebraica, gli ebrei furono considerati popolo respinto da Dio e deicida, cioè responsabile della morte di Gesù. Perseguitati da questa infame calunnia, gli ebrei furono così costretti a subire massacri, espulsioni, bandi, estorsioni, ghettizzazioni. Quando si verificava un'epidemia, una carestia o altro, gli ebrei ne erano spesso ritenuti i responsabili. Altre accuse erano quelle di manovrare la finanza e l'economia, di profanare le ostie consacrate e di eseguire crimini rituali per celebrare le loro feste.
    Furono parecchie le nazioni che comminarono ordini di espulsione per gli ebrei: nel 1290 l'Inghilterra, nel 1384 la Francia, nel 1453 l'Austria, nel 1492 la Spagna, ecc. fino alla II guerra mondiale.”
    RICCARDO DI SEGNI, Introduzione all'Ebraismo, in http://www.corsodireligione.it/religioni/ebraismo/ebr_2.htm
  2. Dal XIV secolo e per tutta l’epoca moderna, in quasi tutte le città europee gli ebrei furono obbligati a vivere nel ghetto ossia un quartiere della città a loro riservato. Il primo fu il ghetto di Venezia; nell’Europa Centrale ci furono ghetti a Praga, Francoforte sul Meno, Magonza e altrove. In alcuni casi il ghetto aveva una popolazione relativamente benestante, come a Venezia; in altri casi una popolazione povera, come a Roma.
    Gli ebrei del ghetto erano soggetti a restrizioni diverse, a seconda dei luoghi; non potevano in ogni caso acquistare terreni e dovevano vivere confinati all’interno, così durante i periodi di crescita demografica dovevano rialzare le case sempre di più; i ghetti avevano strade strette, case alte e affollate.
    Al tramonto, le porte del recinto che circondava il ghetto erano chiuse dall’esterno e venivano riaperte solo all’alba, in modo che gli ebrei non potessero allontanarsi; in qualche caso essi non potevano uscire nemmeno di giorno, se non in possesso di un visto. Il ghetto aveva anche un suo sistema giudiziario indipendente.

    Gli anni 1881-1921 registrano persecuzioni e pogrom in Russia (pogrom erano le sommosse popolari antisemite, con massacri e saccheggi, avvenute in Russia con l’appoggio più o meno tacito degli zar); molti ebrei emigrarono in Occidente o verso la Palestina.

  3. Avvenimenti contemporanei di importanza fondamentale:
    • Gli anni 1941-1945 sono quelli della shoah, lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei;
    • il 1947 vede il voto dell’ONU sulla divisione della Palestina in due stati: uno ebraico e uno arabo;
    • il 1948 vede la nascita dello Stato d'Israele;
    • nel 1950 la Legge del Ritorno, votata dal neonato stato d’Israele, stabilisce che ogni ebreo che giunga in Israele acquisti immediatamente la piena cittadinanza, con tutti i diritti.

10. L’evoluzione del pensiero e della spiritualità giudaica

  1. Il contributo del pensiero ebraico non fu solo di tipo religioso, ma si estese ad altri campi; anche se confinati nella vita del ghetto gli ebrei produssero un pensiero mistico e filosofico, una letteratura, una musica e manifestazioni in vari settori dell’arte. In ambito civile e politico possiamo dire che la tensione verso un rinnovamento messianico si traduce nell’esigenza di fondare una società giusta e quindi permea la stessa spiritualità.
  2. Attraverso le traduzioni degli arabi, gli ebrei vennero a contatto con gli autori greci antichi e in età medievale alcuni si interessarono di filosofia.I filosofi ebrei più significativi sorsero in Spagna durante la dominazione musulmana e scrissero generalmente in arabo:
    Shelomoh ibn Gebirol (chiamato anche, latinamente, Avicebron) (sec.XI) compose un’opera filosofica-teologica, inoltre degli inni che fanno parte ancor oggi della pratica sinagogale;
    Moshe Maimonide (XII secolo) ebbe una vasta produzione filosofica, ma anche poetica e di medicina. Nel suo Pirush Hamishnayot Maimonide formulò i suoi 13 principi della fede ebraica, come si è detto sopra.
  3. A partire dai secoli IV-V in Europa cominciò a farsi strada una corrente esoterica, a cui si accedeva mediante iniziazione: nella Torah sarebbe nascosta una dottrina segreta che riguarda l’uomo e il cosmo intero. Nei secoli XII-XIII questa dottrina si svilupperà nella Qabbalah.
    Secondo la Qabbalah, un evento cosmico catastrofico posto prima del tempo avrebbe reso le anime umane prigioniere di questo mondo; per liberarsi ed accedere di nuovo all’illuminazione che possedevano agli inizi, esse devono rompere i lacci della materialità.
    Per alcune correnti questo è possibile attraverso una via ascetica di moralità e di rinunce, per altre è un itinerario intellettuale, fatto di conoscenza e sapienza. Tale itinerario è organizzato attorno alla dottrina delle sephiroth o manifestazioni dell’energia divina, che si potrebbero definire come gradi per mezzo dei quali Dio agisce nel creato, e constano di un complicato sistema di allusioni, corrispondenze e rimandi.
    Tutta la Torah e lo stesso nome di Dio vennero così scrutati secondo significati segreti, da interpretare in particolare attraverso l’alfabeto ed i numeri. Attraverso l’alfabeto, con l’interscambio delle lettere entro una stessa parola o in altri modi, gli esegeti ebrei scoprivano significati reconditi del Tanak, parole nascoste dentro ad altre parole; attraverso lo scambio numerico attribuivano un valore numerico a ciascuna parola, basandosi sul fatto che in ebraico ogni lettera dell’alfabeto indica anche un numero (questa scienza viene chiamata gemàtria).
    Gli approcci alla Qabbalah furono diversi, secondo l’attitudine di chi la praticava. Pur non essendo ufficiale, questa dottrina misterica influenzò di fatto tutto il giudaismo del periodo medievale e moderno.
    Una corrente chassidica, pietistica, di tipo penitenziale-ascetico, si sviluppò in Germania nel XII secolo. Sottolineava l’importanza del cuore, della fede e della comunione con Dio rispetto alle norme legali ed era fortemente interessata al momento etico.
    Ma il movimento dei chassidim più conosciuto nacque nel secolo XVIII in Podolia (regione attualmente ucraina, storicamente a volte polacca) e anch’essa fu un’esperienza religiosa che giungeva all’uomo comune e valorizzava la sua quotidianità. Il movimento si diffuse presto in tutta l’Europa centro-orientale e balcanica, dove offriva una risposta concreta alle esigenze spirituali delle comunità ebraiche, che in quel periodo si dibattevano tra grandi difficoltà.
    Erano anni di massacri di ebrei da parte dei cosacchi e dei contadini, di un falso Messia che finì miseramente, di estrema povertà, di forzata ignoranza, di sconforto e di pericolo di perdere la fede. Il fondatore del movimento, Ysra’él Baal Sheem Tov, fu un maestro e una guida spirituale. Convinto assertore della metempsicosi, attraverso la quale l’anima compirebbe la sua purificazione, egli si servì anche della Qabbalah ma la trasformò da dottrina per iniziati a esperienza popolare; inoltre promosse il dialogo e il confronto con le correnti ebraiche più austere, che inizialmente lo avevano ostacolato, arrivando a portare comprensione e reciproca accettazione tra le diverse anime ebraiche del suo tempo.
    Il chassidismo polacco si fonda sulla convinzione che la presenza di Dio è dappertutto, e quindi per entrare in contatto con Lui vale la pena di dare attenzione al proprio presente, non solo al passato o al futuro.
    Attraverso racconti popolari ricchi di una saggezza semplice e ingenua, a volte perfino sconcertante, i chassidim affrontano ogni tema del vivere e riconoscono nella vita quotidiana una pienezza che anticipa il compimento futuro. La gioia di Dio che dimora fra gli uomini riempie di significato ogni gesto della vita; il mondo è fondamentalmente buono, la sofferenza è una realtà e come tale va guardata in faccia con coraggio, ma non è insensata e va letta dentro al progetto di Dio; il male è una realtà destinata a finire. Le vie di Dio sono molte e ciò che importa è essere se stessi, seguire la propria chiamata personale.
    Vi sono, in questi racconti, le testimonianze di uomini che la santità ha portato a equilibri mirabili con Dio, senza che rinunciassero ad essere uomini del loro tempo.
  4. Tra i pensatori ebrei contemporanei ricordiamo soltanto quattro nomi:
    • Simone Weil (1909-1943)
    • Martin Buber (1878-1965), che raccolse e pubblicò I racconti dei chassidim
    • Hannah Arendt (1906-1975)
    • Emmanuel Levinas (1905-1995)

Il giudaismo oggi

Gli ebrei vivono in diaspora da duemila anni: per forza di cose, al suo interno si sono formati gruppi etnico-culturali diversi, a seconda dei territori e degli stati da loro abitati, o con cui sono venuti a contatto. Il popolo ebraico attualmente ha due componenti maggiori: gli Ashkenaziti e i Sefarditi. Gli Ashkenaziti provengono dalla Germania (Ashkenaz significa Germania) e da altri paesi eurocentrali; in seguito si sono trasferiti in Polonia e URSS. Questo gruppo ha sviluppato la lingua yiddish yiddish (una lingua o dialetto ebraico-tedesco, attualmente parlato da numerose comunità in tutto il mondo, con fonemi germanici ma scritto con i caratteri dell’alfabeto ebraico) e ha prodotto una ricca cultura artistica, letteraria e musicale.
I Sefarditi provengono invece dalla Spagna (Sepharad) e qui hanno elaborato una lingua di tipo ladino, popolare, allacciando stretti rapporti col mondo musulmano per lo meno fino all’espulsione del 1492.
Tuttavia il fatto di discendere da questo o quel gruppo etno-culturale non ha oggi molta importanza: anche se costumi ed elementi del culto differiscono, le credenze e le pratiche religiose fondamentali sono le stesse. Nei paesi in cui gli ebrei sono numerosi, vi sono sinagoghe separate per Ashkenaziti e Sefarditi, ma dove la comunità è piccola essi si riuniscono assieme in una sola sinagoga.

È quindi più significativo fare riferimento alle differenze politico-religiose; in questo senso le correnti principali sono tre: riformismo, ortodossia e conservatorismo, tutte radicate nel giudaismo rabbinico - talmudico.

Il giudaismo liberale o riformato nacque nella Germania illuminista del XIX secolo e si diffuse soprattutto negli USA; cerca di ripensare il giudaismo in termini attuali.
Per i riformisti la Torah viene da Dio, ma non va presa alla lettera, bensì interpretata secondo i generi letterari.
Essi ritengono che la rivelazione sia in progressione lungo i secoli e si preoccupano di cercare un rapporto col mondo moderno e con le altre religioni. Secondo l’insegnamento dei profeti, ritengono più importante vivere nell’onestà e praticare la giustizia che seguire la legge rituale.
Nel culto i riformati adottano la lingua corrente, abbreviano e modernizzano le funzioni religiose; nel 1970 hanno istituito il rabbinato femminile; nel campo della morale cercano di integrarsi con la cultura in cui vivono.
I riformati coltivano uno spirito universale ed orientano il giudaismo più sulla linea religiosa che su quella politica, a differenza degli altri giudei che tengono viva la speranza di un ritorno nazionale.

Il ramo più giovane di questa corrente è il Ricostruzionismo, che considera la religione solo un fenomeno culturale.

Secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione, nel 1991 la popolazione ebraica nel mondo era di circa 14 milioni, così suddivisi:

(da http://www.corsodireligione.it/religioni/ebraismo/ebr_220.htm )

Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa.
La condizione ebraica dunque non si identifica con l’appartenenza religiosa, ma è piuttosto l’appartenenza a una comunità etnica che si riconosce in una storia comune. Parecchi ebrei oggi sono atei ma accettano, in gradi diversi, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione.


Bibliografia

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http://www.dimensionesperanza.it/ebraismo.html
http://www.corsodireligione.it/index.htm
http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&new_topic=5
http://www.gliscritti.it/approf/mbibbia/ca1se7/sez7_1.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Ebraismo
http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Religioni/EBRAISMO.html
http://www.morasha.it/


Sull’alleanza:

 http://www.corsodireligione.it/religioni/cristianesimo/crist_100.htm
http://www.sapere.it/tca/MainApp?srvc=vr&url=/7/cr/32_1

Testi di preghiere ebraiche, tra cui le “18 benedizioni”:

http://www.finestramedioriente.it/Patrimonio%20Antico/Preghiere/FrameEbraiche.htm

Ampio ed approfondito articolo sulla preghiera ebraica:

http://www.diaconia.it/assoc/Debenedetti_01_05.rtf

Sulla Qabbalah:

http://www.corsodireligione.it/religioni/esoterismo/esoter_1i.htm

Su culto, feste, preghiere - articoli del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni:

http://www.morasha.it/zehut/rds06_appendice.html