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Sumer. Gli Dèi vengono dall'occidente

Abbiamo ormai appurato, attraverso le nostre ricerche, che i nomi conferiti dai nostri avi a luoghi o persone contenevano, a volte, un significato celato, chiaro solo a pochi individui, che ne mantenevano il segreto; più spesso, i nomi originari erano sostituiti con altri nomi che alludevano a caratteristiche significative dei personaggi che designavano. È il caso del re giudeo Salomone, “colui che giudica con saggezza” da sal (sale) e mon (mente), il cui vero nome era Jedidia, o di Jetro, suocero di Mosè, appellato Raguel a motivo della sua capacità di comunicare col divino, di captarne le voci come un'antenna, come un pennone che si slancia verso il cielo. Infatti egli era un sacerdote di Median, una città filistea; poiché, a nostro giudizio, il filisteo è una lingua indoeuropea di ceppo germanico, Raguel deriva da Rahe, che nella lingua nord europea significa appunto antenna, pennone. Gli esempi sono moltissimi: Isacco, Abramo, Agamennone, Cocalo, Zarathustra, Coriolano ecc. sono nomi attribuiti, a sostituzione di quelli originari, a uomini dotati di caratteristiche particolari. Ancor oggi è in uso presso la chiesa cristiana la consuetudine di cambiare il nome del papa eletto, come se attraverso il nuovo nome si inaugurasse anche un nuovo percorso di vita.

Maschera di Agamennone
Maschera di Agamennone

In questo articolo, facendo riferimento all'abitudine dei nostri antenati di ridenominare certi personaggi particolarmente significativi, intendiamo dimostrare come due aree geografiche estremamente distanti tra loro, la Scandinavia e la Mesopotamia, fossero state popolate in tempi antichissimi, forse antidiluviani, da un medesimo popolo primordiale, che ha lasciato molte tracce linguistiche. Un atavico ricordo della possibilità che in tempi remoti esistesse un unico popolo, un popolo primordiale - Ur volk - è stato tramandato anche dalla Genesi, nella quale, nel II capitolo, il narratore afferma che “tutta la terra usava un'unica lingua e le stesse parole” e poi, riportando le autorevoli parole di Jahvè, dichiara: “Ecco, sono un solo popolo, e una sola lingua è comune a tutti loro (.) Orsù discendiamo e confondiamo la loro lingua (.)”.

Al fine della nostra indagine intendiamo innanzitutto concentrare l'attenzione sulla denominazione dei punti cardinali nella lingua norrena e, in particolare, sul termine vestri, ovest. Infatti, secondo un vecchio mito sumero, gli dèi, dopo aver abitato per un lungo periodo l'intera superficie terrestre, avrebbero diviso la terra in quattro parti, scegliendo di abitare l'ovest e lasciando le rimanenti tre parti agli uomini, i quali, nel frattempo, si erano probabilmente suddivisi in tre ceppi, stirpi o razze, come ipotizzato nel nostro saggio L'occidente, i Veda e la trilogia delle razze umane. L'utilizzo del termine vestri per indicare la parte abitata dagli déi non è casuale dal momento che il prefisso ve- contenuto nel lessema nordico ve-stri, è un prefisso sacro, che si ritrova in una miriade di lemmi semanticamente legati ad un concetto di sacralità, oltre ad essere il nome di uno dei tre fratelli divini scandinavi, Odino, Vè, Vili. Ma ciò che intendiamo provare, in questa indagine, è che perfino gli dèi più antichi del mondo, quelli sumeri, se decisero di “tornare nell'ovest”, fu perché dall'ovest provenivano.

Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupàda, nel commento a Śrīmad Bhāgavatam, afferma che il saggio Veda Atri, padre dell'avatara Dattareya, proveniva dall'Europa e che, in quell'epoca, tutto il mondo era popolato dai Veda. Si aggiunga che il prestigioso studioso indiano Baal Gandahar Tilak, nel suo eccellente saggio La dimora artica nei Veda, sostiene, apportando a sostegno della sua tesi mille prove, che la patria originaria del popolo Veda era il polo nord. Tralasceremo, per il momento, di coinvolgere nella nostra analisi il testo sacro degli Irani, l'Avesta, nonostante il titolo di questo libro sia già, di per sé, illuminante dal momento che, in norreno, vestan vuol dire “da ovest”.

Giano bifronte, da Vulci. II sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Giano bifronte, da Vulci.

Ma è il patriarca dell'umanità, Anu o An, l'Avo cioè, che più d'ogni altro palesa, nel proprio nome, la derivazione dalla lingua nordica. In tutte le tradizioni mitiche dell'occidente, la principale divinità del panteon locale entra in relazione con il lessema An (Ano in alto tedesco antico) che significa nonno, avo, antenato: il greco Ur-Ano, gli dèi sicani Odhr-Ano (Adrano) e Ja-Ano (Giano), il germanico Manno, l'indiano Manu e, per finire, il mesopotamico An o Anu. Tutti rappresentano le diverse facce della stessa medaglia. Ci soffermeremo tuttavia sul dio mesopotamico e sulla sua discendenza, onde provare le origini occidentali della civiltà Sumera. Del resto lo stesso nome Zu-mer (Sumero) è già di per sé molto eloquente dal momento che, ricorrendo all'ausilio dell'antica lingua nord-europea, il suo significato è "dal mare" o meglio "in direzione del mare", con chiara allusione alla provenienza del popolo insediatosi in Mesopotamia.

L'eroe o il dio che guidava la spedizione di cinquanta uomini, Argonauti ante litteram, ai quali potremmo osare conferire la denominazione di Zumer in quanto provenienti “dal mare”, era il figlio primogenito del dio Anu ed era denominato En.Ki o Ea. Poiché Ea in Sumero vuol dire acqua, dobbiamo dedurne che tale nome era stato apposto al dio, eroe o principe figlio di Anu, in ricordo o celebrazione delle sue alte capacità di solcare le acque, al punto che veniva identificato con lo stesso elemento che prodigiosamente dominava. Egli era il più capace di tutti, era il primo, era, come diremmo oggi, “il numero uno”, numero cardinale che, in lingua nordica, si traduce einn; del resto En (affine ad einn e sua probabile derivazione), come attestato dagli stessi sumerologi, fu utilizzato in Mesopotamia come prefisso nobiliare. A nostro parere il figlio di Anu fu anche appellato, nella terra tra i due fiumi, En.Ea, cioè il numero uno, il primo, il migliore sulle acque. Che il prefisso En, anteposto ad un qualsiasi nome, sia sinonimo di autorità e di comando lo si evince, tra l'altro, anche dal poema Enmerkard e il Signore di Aratta, in cui si legge: “(.) quando promulgherò le divine leggi di Eriddu. Quando farò fiorire la pura autorità dell'En (.)”. Che il nostro “vichingo” mesopotamico fosse il “numero uno” su tutto ciò che aveva attinenza con l'elemento acqua, lo si evince ulteriormente dal significativo mito sumero del diluvio. In Mesopotamia è Ea a salvare il genere umano dalle acque, rivelando a Utnapishtim, il Noè mesopotamico, l'imminente inondazione che si sarebbe abbattuta su tutta la terra da lì a poco. Ea dimostra in questa occasione le proprie straordinarie abilità di ingegneria nautica. Si noti che, nel mito sumero, Ea non provoca il diluvio ma, utilizzando le proprie conoscenze intorno alla tecnologia nautica e all'arte della navigazione, salva il genere umano dalla catastrofe, suggerendo a un prescelto, possibilmente edotto sull'arte del navigare, le misure per la costruzione di una nave che avrebbe resistito alla devastazione planetaria dovuta ad inverosimili onde marine e a piogge torrenziali.

Dai testi sumeri si apprende che ad Enki veniva dato l'epiteto Ea, acqua, e che veniva apostrofato dunque “signore delle acque”; ciò presuppone però che il lessema Ea fosse preceduto dal titolo di autorità En. Per quanto riguarda l'altro nome, En.Ki, viene tradotto dai sumerologi con il significato “il signore della terra”, dal momento che Ki in Sumero significa terra, nonostante il mito sumero che lo riguarda fa emergere che egli fosse in realtà “il signore dell'acqua”. La traduzione data dai sumerologi al nome En.Ki, fermo restando che Ki possa significare anche terra, non appare però condivisibile per varie ragioni. In primo luogo, come già sottolineato, il mito identifica il figlio di Anu con il signore o dominatore delle acque, dalle quali eroicamente proveniva. È vero che Ea, giunto in Mesopotamia, prende possesso della fertile valle tra i due fiumi, cosa che potrebbe giustificare il significato attribuito dai sumerologi al termine En.ki, ma è anche noto che suo fratello En.lill ben presto lo avrebbe sostituito al comando della regione, motivo per cui En.ki dovette accontentarsi dell'Africa. Non si capisce allora perché l'epiteto di “signore della terra” non sia stato attribuito ad En.lill. Per altro tra gli dèi sumeri esiste una dea o signora della terra chiamata Uras o, raramente, Ki; l'identificazione della terra con un essere di sesso femminile, donatrice di vita, perciò definita madre terra, è del resto più ovvia. Il fatto, inoltre, che anche En.ki, come tutti gli altri dèi, possedesse una città tutta sua, Eriddu - città potentissima nella quale venivano custoditi i famelici “me”, oggetti o entità non identificabili capaci di attribuire un enorme potere al possessore, poi rubati dalla nipote Innanna e trafugati ad Uruk, divenuta da allora la città più potente della Mesopotamia - lo pone sullo stesso piano degli altri dèi sotto il profilo del possesso territoriale.

Noi crediamo piuttosto che l'appellativo Enki significhi non “signore della terra”, per i motivi che abbiamo sopra elencati, ma piuttosto “nessuno”, dal momento che in lingua norrena (lingua nordica delle terre occidentali da cui provenivano i “Zu-mer”) troviamo esattamente il termine enki col significato di “nessuno”. Alla luce di tale significato è possibile tentare un'interpretazione del mito: con il successivo arrivo del fratello Enlill, inviato dal padre Anu e figlio legittimo del dio, Ea perde inevitabilmente il proprio ruolo di primo, almeno sulla terraferma, e diventa subalterno rispetto al fratello, al quale deve cedere il comando sulla Mesopotamia, motivo per cui deve accontentarsi di assumere il ruolo di signore in Africa. Il nuovo signore della terra tra i due fiumi diventa dunque Enlill; certamente, comunque, non esisteva ragione per la quale En.Ea, improvvisamente degradato dal fratello, fosse denominato “signore della terra”. Insomma En.Ea, il primo sui mari, con l'arrivo del fratello, il quale, in virtù del suo rango di principe ereditario legittimo assumeva il comando su tutto ciò che Enki aveva precedentemente conquistato, diventava “Nessuno”, proprio il significato che il termine enki riveste in lingua norrena.

Marduk - Museo del Louvre.
Marduk - Museo del Louvre.

Sulla base di questa interpretazione si spiegherebbero le future pretese sul regno da parte di Marduk, il figlio di Enki primogenito di Anu, il quale in seguito avrebbe rivendicato con successo il comando sulle conquiste paterne, adducendo quale motivazione la primogenitura paterna. Dal canto loro gli eredi di Enlill, non potevano non contrastare le affermazioni di Marduk, che intendeva stravolgere gli usi degli antenati, secondo i quali era legittimo solo l'erede che fosse figlio di genitori consanguinei cioè fratellastri. Si scatenò così una guerra fra i due rami della famiglia divina, simile a quella combattuta, con uguali modalità e motivazioni, tra rami di famiglie umane; si pensi al conflitto tra la casa reale dell'ebreo Saul e il genero David per il possesso del regno della Palestina e poi tra lo stesso Davide e suo figlio Assalonne o a quella tra i due gemelli fondatori di Roma o i fratelli Set ed Osiride in Egitto. Gli esempi potrebbero continuare all'infinito, dal momento che il potere ha sempre diviso coloro che ambiscono ad ottenerlo e le modalità per conseguirlo non mutano con il trascorrere dei millenni.

Tra i familiari di En.Lill pretendenti al regno che hanno lasciato una maggiore impronta nella storia o nel mito sumero, si distingue Innanna, detta Ishtar dagli Assiri e Astarte dai Filistei. Questo nome, che significa la nascosta, colei che si cela, le fu apposto in seguito all'opera da lei prestata in seno alla guerra combattuta fra i due rami della casata regnante in terra di Mesopotamia. Continuando ad utilizzare la lingua norrena per la traduzione dei nomi conferiti agli dèi, troviamo che in norreno Innan significa dentro. Ana rappresenta il genere femminile del nome maschile Anu, avo, Ahne rappresenta il plurale. In questo caso Innanna significherebbe “la detentrice dell'eredità degli Avi” o, più letteralmente, colei che porta “dentro” di sé questa eredità, in quanto in lei scorre il sangue, il seme legittimo degli Avi che solo lei, in qualità di madre procreatrice, può trasmettere. Anche considerando il lessema -ana al singolare il nome si adatta alla nostra interpretazione di erede legittima significando, in questo caso, la prescelta, la nipote preferita di Anu. Infatti il dio, secondo il mito sumero, regala a lei la propria reggia, chiamata E.anna, che aveva sede nella città di Uruk. Questo particolare regalo potrebbe essere stato oggetto di strumentalizzazione da parte della giovane ed intraprendente dea, che lo avrebbe interpretato come una designazione ufficiale al regno. In lei si concentrano, del resto, vari attributi divini, che la mettevano nelle migliori condizioni di pretesa ereditarietà rispetto al pretendente della fazione opposta, cioè il cugino Marduk. Lei, attraverso lo status di “madre”, avrebbe dato alla luce, a sua volta e a tempo debito, l'erede, prerogativa inibita agli uomini. Gli dèi sumeri di sesso maschile, erano coscienti di questo handicap genetico, ma avevano egregiamente superato l'ostacolo sposando le proprie sorelle (sorellastre per l'esattezza). Era stato grazie a questo espediente che Enlill, padre di Innanna, aveva ereditato il regno, soppiantando il fratello, che era sì il figlio maggiore di Anu ma non, come Enlill, figlio anche della sorellastra del dio. Avvenne così pure, secondo le consuetudini ebree, per il patriarca Isacco il quale, pur essendo più giovane del fratellastro Ismaele, ereditò da Abramo la successione, essendo nato dal patriarca e dalla sorellastra di questi, Sara. La stessa abitudine di sposare sorellastre era presente tra gli Egizi e i Germani.

Poiché ai nostri lettori non sarà passato inosservato che il primo attributo conferito al figlio di Anu, En.Ea, è identico a quello dell'eroe troiano citato da Omero, avranno anche immediatamente intuito le strette relazioni intercorse tra la Mesopotamia e le terre del Bosforo, da cui, ne siamo oltremodo certi, la terra tra i due fiumi mutuò la propria weltanshauung. Di questo abbiamo detto, in ordine sparso, tramite diversi articoli ed ancora lo faremo nei prossimi. Qui basti tracciare l'evidenza di un collegamento tra il nome dell'eroe troiano, il mare o l'acqua, le imbarcazioni e il ruolo che egli avrebbe dovuto ricoprire in una ricca città portuale quale era Troia, la quale non poteva essere deficitaria della presenza, nei propri porti, di una prestigiosa marina militare e mercantile. Proprio i commerci e il pedaggio che i Greci erano costretti a pagare ai Troiani per l'attraversamento dello stretto, dovette essere stata la causa della famosa guerra di Troia. Il motivo per cui questa guerra fu combattuta esclusivamente sulla terra ferma viene espressamente denunciato da Ettore (Iliade XV,720), il quale ne attribuisce la causa alla viltà degli anziani, i quali probabilmente indugiarono così a lungo prima di pervenire ad un intervento armato che, quando si pronunziarono per l'inevitabile scontro, ormai avevano irrimediabilmente perduto il porto troiano.

Cavallo di Troia - Tiepolo.
Cavallo di Troia - Tiepolo.

Dunque, se En.Ea, come conferma il suo nome, era il primo sul mare, se egli era l'ammiraglio che comandava le navi troiane sul Bosforo, ecco che il primo sulla terra ferma, En.Tor o Ettore, era il custode della porta (tor in lingua nordica significa appunto “porta”). Il simbolismo della porta quale collegamento tra cielo e terra, tra il visibile e l'invisibile, il bene e il male, cui abbiamo fatto riferimento spesso nei nostri articoli, essendo un leit motive frequente delle civiltà tradizionali, ci fa comprendere il ruolo oltremodo importante conferito a Ettore nell'epica troiana. Che egli fosse il custode della porta e che il suo ruolo, interpretato in chiave religiosa e metafisica, fosse quello di impedire l'ingresso di forze negative all'interno della città, chiusa dal cerchio protettivo delle mura di cinta, lo conferma il suo torreggiare (torn in lingua nordica significa torre) davanti alle porte Scee ad attendere Achille, colui il quale rappresentava, per Troia, la personificazione del male. La porta, proprio per il suo ruolo di luogo di attraversamento, rappresenta una vulnerabilità da tenere sotto controllo, sotto osservazione. La porta diventa anche il luogo degli “accadimenti speciali”, che possono trasformarsi in incontro o scontro. Non a caso in lingua norrena ske significa “accadere”: En.Tor era pertanto il custode delle porte Scee o degli ”accadimenti“ ed aveva il compito di impedire il passaggio degli accadimenti deleteri per la città.

È importante, al fine di comprendere il ruolo metafisico attribuito alla porta in tutti i miti, richiamare alla mente l'analogo episodio biblico secondo cui Lot, nipote di Abramo, residente nella città di Gomorra, era seduto davanti alla porta della città quando gli si presentarono tre angeli incaricati della distruzione di Gomorra. Lot, probabilmente già informato dell'arrivo di questi ospiti stranieri, li attendeva davanti alla porta, forse per permettere loro di entrare, facendosene garante. Nel caso di Gomorra, la porta diventa il luogo di accesso per la giustizia che avrebbe distrutto, eliminato, annientato l'ingiustizia che si era radicata nella città. Lot, diversamente da En.Tor, il cui compito era sbarrare l'accesso ad Achille, considerato la personificazione del male, nelle sue vesti bibliche di custode della porta ha il compito di introdurvi il bene per scacciare il male. Per dimostrare l'importante ruolo che si attribuì ai custodi della porta, ricordiamo a quanti hanno dimestichezza con il libro sacro degli Ebrei che Mosè, quando istituì il sacerdozio, pose dei sacerdoti e non delle guardie armate a custodire le porte della città. Anche a Roma, in origine, venne istituito il ruolo di custode della porta, affidato ad un Pontifex.

Abbiamo altre frecce per il nostro arco da utilizzare a sostegno della tesi esposta in questa breve indagine sull'origine occidentale delle divinità sumere; ne vogliamo scoccare ancora una: Gerico è ritenuta la più antica città del mondo strappata ai veli che il passato ha deposto, pietosamente, su un capitolo di storia plurimillenaria conclusasi. Essa si trova a occidente della Mesopotamia, nella terra dei Filistei, ed il suo nome riconduce ad un'epoca di conquiste avvenute attraverso l'uso della forza. Non apprendiamo dall'antichissimo mito sumero come Ea\Enki avesse conquistato l'enorme regione tra i due fiumi, ma chi conquistò Gerico lo fece, certo, utilizzando le armi, “la lancia” in particolare. La lancia e il conquistatore di Gerico si identificavano l'una con l'altro, come nel caso di Agesilao il quale, quando gli fu chiesto fin dove arrivasse il suo regno, mostrando e agitando la propria lancia, rispose: “Fin dove arriva questa”. Il toponimo Gerico è infatti composto rispettivamente dai lessemi ger, lancia, ed ek, che in lingua norrena significa “io” (ich in tedesco). Allo stesso modo crediamo che il significato del nome del misterioso civilizzatore babilonese Oannes, raffigurato come un uomo mezzo pesce giunto in Mesopotamia dal mare occidentale, che aveva il merito di avere insegnato agli abitanti della regione le arti e le scienze, il cui mito viene raccontato dal sacerdote caldeo Beroso, vissuto nel III sec. a.C., significasse “acqua-avo” (da ea, acqua, e Anes, avo), ad indicare la simbiosi che questo primo antenato aveva raggiunto con l'elemento acqua, tanto da sentirsi a proprio agio nelle acque marine proprio come un pesce. Proprio per evidenziare questo grado di simbiosi con l'elemento acqueo le raffigurazioni babilonesi ritraggono Oannes, dal bacino in giù, mezzo pesce. Le capacità nautiche non sono, del resto, esclusività di un popolo in particolare; ad ogni modo, i popoli caratterizzati da particolari abilità nautiche sono caratterizzati da nomi che richiamano tali peculiarità e si riagganciano a tradizioni locali. I poeti Greci Apollonio e Omero fanno ad esempio dei Feaci un popolo di navigatori così capaci da muovere l'invidia dello stesso padrone del mare, il dio Poseidone. Le navi dei Feaci, racconta Omero per bocca del re di Itaca Ulisse, erano capaci di interagire con il loro comandante, tanto che questi riusciva a farle muovere col pensiero, e non avevano bisogno di remi e rematori.

Di volata crediamo sia interessante accennare alla presenza nel Lazio - territorio, più esattamente identificabile con l'Etruria, dal quale secondo Virgilio provenivano i Troiani, a conferma, ancora una volta, della tesi dell'origine occidentale della civiltà - di un dio in stretta relazione con la terra tra i due fiumi. Qui il dio primordiale del Lazio, Jah-Ano, Giano nel locale dialetto, viene raffigurato con due facce diametralmente opposte l'una all'altra, detto perciò bifronte. La stessa rappresentazione di un uomo con due facce si ritrova tra i reperti archeologici sumeri, incisa su alcuni cilindri di terracotta e raffigurata al cospetto del dio Enki; l'uomo bifronte sembra interloquire con il dio, tanto che alcuni studiosi lo hanno interpretato come un ambasciatore o emissario del dio. Perché allora non ipotizzare che Enki fosse in comunicazione con i Sicani del Lazio attraverso il proprio ambasciatore o viceversa? Si potrebbe spiegare così anche il fatto che, in un carteggio fra un re del regno di Mari e suo figlio, venga nominata dal re la città Alatri, impossibile da espugnare, come spiega al figlio, perché protetta da poderose mura.

Ade rapisce Persefone.
Ade rapisce Persefone.

La presenza del culto dell'Avo primordiale nella tradizione europea, come induce a ritenere anche la presenza in Sicilia del dio sicano Odhr-Ano, è un dato indubitabile; inoltre, potremmo ipotizzare che in nome del padre degli dèi, l'avo per eccellenza, Anu, avveniva sempre ogni conquista, pacifica o violenta ch'essa fosse. Dalla lettura e interpretazione del mito sumero crediamo di poter dedurre che Enki, prima di giungere in Mesopotamia, conquistata o pacificamente occupata, fosse passato dall'Africa, provenendo dal Mar Mediterraneo. Questa provenienza acquatica, oltre a giustificare l'appellativo Ea conferito al dio è compatibile con l'ipotesi che l'intero equipaggio che lo accompagnava potesse essere stato definito “zu-mer”, a significare che proveniva ”dal mare“. L'occidente era dunque la terra natia di questo gruppo di uomini o eroi e il Mediterraneo dovette essere una tappa del percorso da ovest verso est compiuto, nei millenni, dal popolo nordico. Del resto nel Mediterraneo troviamo reperti e miti che, se ben interpretati, spostano indietro nel tempo, di millenni, la presenza umana in occidente e attestano di migrazioni o viaggi verso est. Secondo il mito greco, Cerere giunge in Grecia mentre cerca la figlia rapitale in Sicilia da Plutone. Agli abitanti dell'isola egea ella insegna la civiltà e le arti, facendo anche dono del grano, che i Greci non conoscevano. Lo stesso dono del sapere avrebbe fatto Oannes in Babilonia. Stando così le cose si può supporre che Enki con i suoi cinquanta “argonauti” , raggiunte le coste mediorientali, provenendo dal mar Mediterraneo, proseguisse fino in Mesopotamia, attraverso l'entroterra. Lungo il percorso i nostri pionieri, come tutti gli eroi erranti della storia umana, dal troiano Enea al vichingo Erik il Rosso, avrebbero fondato alcuni insediamenti, più antichi, alla luce di tale interpretazione, rispetto a quelli di Uruk, Ur, Eriddu. I primi insediamenti erano più prossimi al Mare Mediterraneo e potrebbero essere stati quelli di Atlit- Yam, poi sommersa da un maremoto causato dall'implosione e dallo scivolamento dell'Etna nel Mediterraneo intorno al seimila a.C., seguita da Nabta-Playa, Gerico, Ebla, Mari, fino a Babilonia. Sembra dare ragione alla nostra ricostruzione, perfino il nome della divinità originaria della città egiziana di Abido, Khenti-Amentiu, detto ”Primo tra gli Occidentali“. La toponomastica siciliana, da noi indagata in un articolo di precedente pubblicazione Un dio tra il Simeto e..., fornisce ulteriori argomentazioni a sostegno della tesi, qui sostenuta, secondo la quale la civiltà ha viaggiato in senso orario, “da occidente verso oriente”, direzione esprimibile con il termine norreno vestan.

 Prof. Francesco Branchina

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