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Nella stessa regione dell'India nord-orientale, dove si era sviluppato il pensiero religioso del Jina Mahâvira, nacque e si propagò un'altra dottrina, che per larghezza di diffusione e numero di seguaci, doveva superare di gran lunga la prima. Il nome della terra di origine non è noto se non attraverso il nome dei suoi regnanti Sakya, classe orgogliosa di nobili, particolarmente avversa al potere spirituale dei bramini. Compresa longitudinalmente tra il corso medio dei fiumi Rapti e Rohini, essa si estendeva dalle ultime pendici dell'Himalaya, a nord-est di Benares, fino al Gange.

L'essenziale della dottrina buddista si compone di quattro «nobili verità»:

  • Tutto è dolore, il dolore impregna e determina la vita di tutti gli esseri. Non esistono né Dio né principio vitale supremo, ma soltanto nature composte, soggette per natura alla decomposizione. Solo il dolore esiste in modo permanente.
  • L'origine del dolore è la «sete», il desiderio , la cui causa è l'ignoranza della realtà che il Budda rivela; la realtà è il vuoto, la temporaneità.
  • La terza verità è la soppressione di ogni desiderio, e perciò l'estinzione del dolore (nirvãna).
  • La quarta verità è la via che conduce a questa estinzione del dolore: quella di una vita austera e frugale, tendente a favorire la concentrazione spirituale per pervenire al risveglio (Bodhi), cioè alla percezione della «realtà» di cui il Budda ha avuto l'illuminazione.

La nascita

Budda («l'Illuminato») è un personaggio storico vissuto dal 560 al 480 a.C. ai confini del Nepal. Possediamo su questo personaggio soltanto notizie leggendarie: ogni tentativo di ricerca critica è praticamente impossibile per lo storico, in assenza di ogni documento dell'epoca.

Da Suddhodama, capo eletto dei Sakya, nacque, nel 560 circa a.C., un bimbo cui venne imposto il nome augurale di Siddhartha «colui che ha raggiunto il suo scopo» o Gotama, dal nome del ramo (Gotra) dei Sakya cui apparteneva. Nel corso degli anni fu designato con altri nomi: Samana, Gotamide (l'asceta), Sakyamuni (il saggio dei Sakya), Tathagata (colui che è in possesso della verità), Bhagava (l'eminente), sino al più recente Budda (l'illuminato).

Non esistono dubbi circa l'effettiva esistenza di questo personaggio, esistenza che ha trovato una conferma nella scoperta presso Rummindei, ai confini del Nepal con l'India, di una colonna in cui è incisa un'iscrizione che ricorda l'esenzione dalle imposte concessa dall'imperatore Asoka nel 249 a.C., al villaggio di Lumbini (odierno Rummindei), ove Siddhattha sarebbe nato.

Secondo i testi sacri, Budda sarebbe nato a Kapilavatthu, la capitale del dominio dei Sakya. Sette giorni dopo la sua nascita gli morì la madre Maya ed il padre sposò la sorella della moglie, Mahapajapati, che più tardi ebbe altri due figli. Fra i sedici e i diciannove anni, Siddhattha sposò, secondo alcune interpretazioni, una donna con tre nomi o più probabilmente tre donne: Yasodhara, Gopa e Bhaddakaccha, dalla quale ebbe, intorno ai ventinove anni, un figlio, Rahula.

Non aveva ancora trent'anni quando, insoddisfatto dei piaceri che la vita gli offriva, dimentico della moglie e del figlioletto, alla ricerca di qualcosa di più duraturo delle glorie terrene, abbandonò di notte la casa paterna per intraprendere una vita ascetica, nella quale trovare un mezzo di liberazione dal dolore dell'esistenza. Indossata la veste gialla del penitente, si diresse verso Rajugaha, ai piedi della catena del Vindhya, località in cui erano soliti convenire coloro che avevano deciso di dedicarsi a una vita di espiazione.

Dopo l'incontro di due maestri bramini, che non riuscirono a soddisfare il suo spirito assetato di verità, riprese il cammino assieme ad altri cinque monaci e giunse a Uruvela, un villaggio situato a mezzogiorno di Patna nei pressi del fiume Nerangiara, dove si diede alle più aspre e severe penitenze, destinate ad esercitare lo spirito e mortificare la carne.

Dopo sei anni di indicibili sofferenze, in cui il corpo assunse un aspetto ripugnante a causa dei digiuni e delle macerazioni, Gotama capì che il suo spirito non poteva ricevere la luce dalle sofferenze del corpo e perciò decise di abbandonare questa autoflagellazione, ciò che gli valse la diffidenza e l'abbandono degli altri monaci.

L'Illuminazione. La Predica di Benares

La diffidenza non valse a distogliere l'asceta Gotama dalla sua ricerca, così dopo sette anni dall'abbandono della casa paterna, narra la leggenda che una notte, mentre era seduto sotto un albero di fico (che sarebbe rimasto per molti secoli oggetto di venerazione con il nome di Bodhivrksre «l'albero della chiaroveggenza»), la luce della verità brillò nella sua mente. Considerata la miseria delle leggi della natura cui l'uomo è soggetto (nascita, vecchiaia, malattia, morte, dolore, corruzione), Siddhartha intuì lo stato di grazia suprema che poteva renderlo libero; capì, cioè, l'essenza del dolore e ne scoperse le origini; ripercorse passate esperienze di vite remote; ebbe in sé la sensazione dell'intera umanità: intuizioni che lo portarono alla distruzione del dolore e, attraverso la liberazione dall'esistenza, al nirvana. Nel corso di quella notte, ripercorse la serie delle cause e degli effetti e riuscì a dissipare l'ignoranza, a conquistare la scienza, a distruggere l'oscurità, a raggiungere la luce: da quel momento non fu più solo Siddhartha, non più solo l'asceta Gotama, ma Budda «l'illuminato», il «risvegliato».

Considerata l'utilità e il bene che questa rivelazione avrebbe prodotto presso gli uomini, Budda decise di farne partecipi anzitutto due vecchi maestri bramini, ma avendone appurata la morte, proseguì per Isipatama, il bosco delle gazzelle, presso Benares, dove sapeva che operavano i cinque monaci che lo avevano abbandonato. Qui dovette faticare non poco per convincere i vecchi compagni, diffidenti della rivelazione e del segreto per gli uomini per raggiungere la nuova vita e la suprema salute.

Vinta la loro riluttanza e conquistate le loro anime, il Budda fece loro la prima predica, passata nei secoli come predica di Benares.

L'Apostolato

All'epoca dell'illuminazione, Budda aveva 36 anni; a quel momento può farsi risalire l'inizio del suo vero e proprio apostolato, che si svilupperà ininterrottamente per quarantaquattro anni (la sua morte è comunemente fissata tra il 484 e il 480 a.C.) attraverso una peregrinazione nei regni di Magadha, del Korala e di Kasi (odierna Benares), interrotta solo nel periodo delle piogge, quando le strade erano impraticabili. Le sue prediche raccolsero intorno a lui schiere di neofiti che comprendevano nobili, mercanti, contadini ed intellettuali provenienti dalle più diverse sedi, in cerca di serenità e di pace.

Fra le prime prediche dell'illuminato, deve citarsi quella che egli tenne a Uruvela, dalle alture del monte Gayasisa, denominata da alcuni, per analogia con il cristianesimo, il «sermone buddista della montagna», dinanzi a seguaci del culto del fuoco, mentre un incendio si era sviluppato su una vicina collina. Il re di Magadha, Bibbisara, convertitosi alla sua fede, gli regalò il bosco di bambù (Veluvana), uno dei primi luoghi di raccoglimento del Budda e dei suoi discepoli nei periodi di sosta forzata, nelle stagioni delle piogge.

In seguito a forti insistenze di suo padre, il Budda, qualche tempo dopo il discorso di Benares, tornò nella sua città natale Kapilavatthu, sollevando grande scandalo presso i suoi parenti offesi dall'abbigliamento e dai modi umili, scandalo che non impedì di convertire il padre Suddhodama, il fratellastro Nanda e persino il figlioletto Rahula di appena sette anni.

Ma il Budda non intendeva fare proseliti solo fra gli uomini della sua condizione sociale, la sua dottrina era universale, a nessuno poteva essere negato il diritto di cercare la via della liberazione; ciò però non escludeva per lui la sistemazione della società in caste, dato che il nascere in una, piuttosto che in un'altra, condizione era per lui la conseguenza delle azioni (karman) compiute in una precedente esistenza. I discepoli della nuova religione, per aver raggiunto uno stato di liberazione, erano perciò stesso posti al di sopra di ogni casta: «La mia legge è una legge di grazia per tutti», «poiché la legge che insegno è assolutamente pura, essa non fa distinzione fra patrizi e plebei, fra ricchi e poveri». Tra i suoi discepoli si annoverano quindi uomini di umile estrazione quali artigiani, contadini, pescatori e persino un brigante, Angulimala, i quali raggiunsero tutti lo stadio di liberazione.

Devadatta, il primo scisma

Tra i primi e più fedeli discepoli del Budda, sono da ricordare Ananda (fu il suo accompagnatore per più di vent'anni) e Devadatta, il quale, pur essendo vissuto in piena osservanza della dottrina per molti anni, sarebbe divenuto il suo più fiero avversario (per analogia col cristianesimo sono stati paragonati il primo a San Giovanni, il secondo a Giuda). Devadatta, cugino del Budda, nutrì sin dall'inizio una sorta di rancore nei confronti del maestro per cause familiari, e questo rancore, mai sopito, lo portò, attraverso una serie di intrighi, a cui non furono estranei neanche i regnanti del Korala, al vero e proprio scisma fra il 494 e il 492 a.C., scisma mai perdonato dal Budda al suo discepolo.

Lo scisma, fondato sul maggiore rigore della vita monastica concernente l'abitazione, l'abbigliamento e il cibo, esaltava il principio per cui la concentrazione mentale era il mezzo più efficace di qualsiasi altro, pur etico, nella ricerca della via verso la liberazione. Non ebbe una grande diffusione: cinquecento monaci, staccatisi dalla comunità, dopo breve tempo vi fecero ritorno, persuasi dai discepoli Sariputta e Moggallone. Tuttavia da testimonianze di pellegrini cinesi, si può desumere l'esistenza di seguaci di Devadatta sino al quinto, sesto secolo dopo Cristo. Fu il primo e più rilevante scisma mentre Budda era in vita; altri e più profondi travaglieranno la dottrina buddista dopo la morte del maestro.

Ultimi avvenimenti nella vita del Budda

L'apostolato del Budda non ebbe sosta durante tutta la sua vita, in particolare negli ultimi tre mesi, egli svolse una frenetica attività presso i seguaci delle varie regioni del suo paese per comporre dissidi. Nel corso di una sua permanenza a Beluva, per passarvi la stagione delle piogge, si ammalò ma volle lo stesso riprendere il viaggio verso Kapilavatthu e giunto a Pava (odierna Padranna), villaggio presso Kusinara (odierno Kasia), sostò, invitato nella casa del fabbro Cunda, ove si aggravò a causa del cibo malsano ingerito; riuscì tuttavia a trascinarsi sino a un sobborgo di Kusinara. Deposto su un giaciglio di foglie ai piedi di un albero di Sala in fiore, attorniato dai suoi discepoli, tra cui il prediletto Ananda, ebbe ancora la forza di predicare il suo verbo e convertire un medico eretico, tale Subhadda, prima di esalare serenamente l'ultimo respiro.

Questi sono i dati storici che si sono raccolti intorno alla vita del Buddha; molto più fantasiose le leggende che sorsero e si svilupparono nei secoli. A tali leggende si riferiscono gli episodi riportati della fuga dalla casa paterna favorita dagli dei e di quattro famosi incontri col vecchio, col malato, col corteo funebre e col monaco, nonché le tentazioni mondane di Mara, il genio del male, durante le sue meditazioni sotto il fico.

La leggenda buddista è piena di avvenimenti meravigliosi, di miracoli realizzati da Budda: tutti questi fatti, tutti questi miti hanno arricchito l'arte indiana con statue e bassorilievi. Fra le forme più pittoresche della predicazione di Budda, citiamo le Jataka , che sono leggende concernenti ciascuna delle 547 incarnazioni anteriori di Gautama; terminano tutte con massime morali, come le favole di Esopo.

Su istigazione di Ananda, il corpo di Budda venne incenerito e le sue reliquie divise e sepolte in nove posti differenti, in ognuno dei quali si costruì un piccolo edificio di pietra chiamato Stupa (nel 1909 fu esumato uno Stupa vicino alla città di Peschawar; conteneva un reliquiario di cristallo nell'interno del quale si trovarono frammenti di osso: alcuni pensarono trattarsi dei resti di Budda).

I testi

La dottrina del buddismo ci è stata trasmessa in lingua pali (medio indiano letterario) e in sanscrito misto e puro.

La compilazione del Canone pali, erroneamente definito meridionale, anche se proveniente da Ceylon, dove era stato conservato dai monaci, è originaria delle regioni centrali, tra l'Himalaya e i Vindhya, ed è opera dei discepoli diretti di Budda, attraverso quattro secoli dopo la sua morte. Il Canone pali consiste nel cosiddetto Tri-pitaka «i tre canestri», il primo dei quali definito Vinaya-Pitaka «il canestro della disciplina», il secondo Sutta-Pitaka «il canestro delle prediche», il terzo Abhidhamma-Pitaka «il canestro dell'essenza della legge».

  • Il Vinaya-Pitaka consta di tre raccolte contenenti tutto quanto può riferirsi alle comunità dei monaci e cioè:
    • Il Sutta-vibhanga «dichiarazione dei sutta», contenente 227 regole (sutta) da recitarsi due volte al mese nell'adunanza dei monaci e delle monache; regole la cui osservanza o violazione portava alla permanenza o all'esclusione dall'ordine;
    • I Khandhaka «sessioni», concernenti la vita quotidiana dei monaci e delle monache (regole per l'abitazione e per l'abbigliamento);
    • Paivana , che costituisce una vera e propria appendice di testi canonici ad uso della comunità.
  • Il Sutta-Pitaka comprende, in cinque raccolte o collezioni in forma di prediche, discorsi, dialoghi, la dottrina buddista espressa per bocca del Budda o, a volte, da uno dei suoi discepoli.
  • La Abhidhamma-Pitaka comprende sette testi che trattano particolarmente dei fondamenti psicologici dell'etica buddista. É il meno antico dei tre Pitaka, e presuppone la conoscenza del Sutta-Pitaka, di cui svolge, in senso dialettico-didascalico, il contenuto.

Dalle stesse fonti, sono giunti sino a noi frammenti di un Canone in sanscrito e in tocarico (lingua dell'Asia centrale), rinvenuti nel 1003 nel Turkestan orientale, contenenti citazioni di altri testi buddisti.

Il Canone pali e sanscrito citati, quest'ultimo molto più piccolo del primo, la cui dottrina sarà denominata Hinayana («Piccolo Veicolo») in contrapposizione a quella Mahayana («Grande Veicolo»), concordano, come contenuto, fra di loro, ciò che conferma l'ipotesi di una loro provenienza da una stessa fonte. Allo stesso Hinayana appartiene il Mahavastu «Il libro dei grandi avvenimenti», narrazione leggendaria della vita del Budda anche nell'esistenza precedente all'ultima terrena e delle vicende storiche dell'ordine.

Quanto di altro ci è pervenuto sulla dottrina del Budda, si raccoglie sotto la denominazione di Mahayana, che non può considerarsi un vero e proprio Canone, dal momento che si tratta di testi redatti in tempi e scuole diverse, prevalentemente nel Nepal, nel Tibet ed in Cina.

Altri testi di diverso contenuto (mitologico, escatologico, fantastico) sono giunti sino a noi; nonché inni (stotra), formule di benedizione, di scongiuri, ecc. contenenti norme della dottrina segreta del yogin, e del rituale (tantra), che rappresentano un tentativo di commistione tra la dottrina del Mahayana e quella dell'induismo.

Dottrina del Budda (Hinayana)

Le dottrine contemporanee o precedenti al buddismo avevano dato grande risalto ai principi metafisici del mondo; il Budda, invece, pur avendo fissato alcuni principi che potrebbero definirsi metafisici, ripudiò tutti quei concetti, come pure volle spogliarsi di tutti i severi e crudeli mezzi di ascesa per la ricerca della verità. La sua fu una dottrina di redenzione nella quale egli, ammettendo solo ciò che è accessibile all'intelletto e scartando il presunto mistero che si nasconde dietro le cose, concepì la liberazione dal dolore attraverso la santità della vita, raggiunta con la soppressione delle passioni per inestinguibile forza di volontà e con l'esercizio della meditazione.

• Budda ammise l'esistenza obiettiva del mondo esterno, pur non ritenendolo permanente; negò con i materialisti l'autorità del Veda e dei Brahmani; non riconobbe l'esistenza dell'anima quale noi la intendiamo; dallo Yoga derivò pratiche di concentrazione mentale e di estasi, quali mezzi di purificazione intellettuale; infine non concepì l'esistenza di un principio superiore creatore e regolatore di tutti gli esseri e di tutte le cose. Tutta la dottrina del Budda è espressa in sintesi ed è raccolta in quella che viene definita «la predica di Benares».

Principio informatore di tutto quanto esiste nella vita è, secondo la prima verità, il dolore dell'esistenza. Ma che cos'è il dolore e come si origina?

Cinque gruppi o aggregati (Khandha) di elementi concorrono, aggregandosi tra loro alla determinazione della personalità psicofisica:

  1. rupa = il gruppo del sensibile, la parte corporea dell'uomo;
  2. vedana = la sensazione di dolore o di piacere;
  3. sanna = la percezione, la rappresentazione, l'idea;
  4. sankara = elementi motori (volontà, desiderio, memoria, fede, coraggio ed i loro contrari);
  5. vinnana = coscienza, elemento in sé fuori di ogni attributo o facoltà.

Quando questi elementi, per loro natura mutabili, si sciolgono, si separano, non rimangono che le azioni (Karman) che qualificano l'uomo e la sua esistenza. Queste azioni non vanno perdute, ma costituiscono l'anello di congiunzione tra la sua esistenza passata e quella futura; passano quindi in un altro individuo come bagaglio di sofferenza e di dolore. Questo processo di passaggi di dolore si prolungherà sino al raggiungimento della scienza (vijja) e quindi troverà la pace eterna nel Nirvana.

La seconda e terza verità (l'origine e la distruzione del dolore) trovano la loro spiegazione nel principio del nesso causale (paticca-samuppada). Per poter intendere il significato di questo principio, occorre considerare l'esistenza individuale nel suo succedersi nell'interminabile corso dell'esistenza cosmica: essa è conseguenza di una esistenza che l'ha preceduta e causa di un'altra che la seguirà. In questo concatenamento di esistenze, che trasmettono le loro esperienze in una serie infinita, è riaffermato il principio della mutabilità dell'Essere e quindi della conseguente indipendenza della vita da qualsiasi principio o potere regolatore.

La quarta verità illustra il sentiero per giungere al fine supremo e si basa su otto principi:

la retta fede (samma-ditthi);

  1. il retto proposito (samma-sankappa);
  2. la retta parola (samma-vaca);
  3. la retta azione (samma-kammanta);
  4. il retto contegno di vita (samma-jiva);
  5. il retto sforzo (samma-vayana);
  6. il retto pensiero o ricordo (samma-sati);
  7. la retta concentrazione di spirito (samma-samadhi).

Attraverso l'osservanza di questi otto principi si raggiunse il nirvana, ciò che può avvenire anche durante l'esistenza terrena dell'individuo: spente tutte le passioni, distrutta l'illusione della vita, rimosso ogni attaccamento ad essa, realizzata la conoscenza diretta e essenziale della verità. Onde si può definire il nirvana quale cessazione della vita empirica, non il nulla, ma uno stato di beatitudine seguente alla coscienza della non sensazione.

L'ordine (sangha)

Un embrione di organizzazione del buddismo si può far risalire al primo raduno di sessanta monaci a cui il Budda diede il potere di consacrare nuovi discepoli. Comunque, le norme, che regolano gli adepti di questa religione, dovettero scaturire probabilmente da quei raduni di discepoli che si avevano ogni anno in occasione delle grandi piogge, che costringevano tutti a fermarsi per un lungo periodo in una determinata località.

 

Come la comunità giainista, così l'ordine buddista prevedeva laici (upasaka) e monaci (samana), distinti fra loro dalle diverse regole di vita, ma accomunati nella fede del Budda. I laici erano assoggettati all'osservanza di cinque comandamenti fondamentali (sila):

  1. non nuocere a qualsiasi creatura vivente;
  2. non rubare;
  3. non fornicare;
  4. non mentire;
  5. non bere bevande inebrianti.

A ciò doveva aggiungersi l'obbligo di provvedere al sostentamento dei monaci. Se la loro condotta fosse stata conforme a questi comandamenti, per loro avrebbe potuto esserci la possibilità di raggiungere il nirvana.

L'entrata nell'ordine monastico era preclusa ai soldati, a coloro che svolgevano un'attività per il re, a tutti coloro che non avessero la completa disponibilità delle loro azioni: come minori di anni quindici, servi, debitori e criminali. Il monaco, il quale non riceveva una speciale investitura, era sottoposto a obblighi più severi del laico:

  1. assoluta castità, cui corrispondeva nel laico il divieto di fornicazione;
  2. assoluta povertà (non poteva possedere nulla che non fosse la povera veste gialla, il suo saio, una scodella per il cibo raccolto attraverso elemosine);
  3. proibizione di ricevere denaro o altri doni.

L'ordinazione si svolgeva in due tempi: il noviziato, che durava cinque anni, e quindi lo stato di monaco (upasampada), con la pronuncia dei voti che non erano irrevocabili. Non esisteva una gerarchia: il termine thera (vecchio anziano), che si trova attribuita ad alcuni monaci, concerneva solo un fatto di rispetto per l'età avanzata del soggetto.

Due cerimonie erano considerate fondamentali nella vita dei monaci: l'uposatha (giorno del digiuno), in cui la comunità si riuniva, nel plenilunio e nel novilunio, e, sotto la presidenza di un anziano, ascoltava la confessione pubblica dei peccati (patimokkha). Altra cerimonia era il pavarana (invito), che aveva luogo alla fine della stagione delle piogge e consisteva nell'invito che ogni monaco rivolgeva ai confratelli di manifestargli le mancanze da lui eventualmente commesse.

Esistevano inoltre comunità di monache e laiche, le quali godevano di tutti i diritti concessi agli uomini, anche se per loro fu mantenuta quella generale condizione di inferiorità che la società del tempo riservava alle donne; per cui erano soggette alla sorveglianza del monaci.

Come non esistevano monasteri, così non vi fu mai, nei tempi antichi, alcuna forma particolare di liturgia: i monaci si limitavano a leggere e tenere sermoni sui precetti lasciati dal Maestro.

Il Mahayana (grande veicolo)

Con il diffondersi del buddismo nelle regioni del nord-ovest dell'India, l'antica dottrina dell'Hinayana (piccolo veicolo) subì l'influenza di altre religioni, in particolare quella brahmanica, che ne determinarono notevoli modificazioni rispetto all'origine. I nuovi indirizzi denominati Mahayana (grande veicolo), si svilupparono progressivamente, ed è quindi impossibile dire con precisione quando questa dottrina assunse una formulazione come corpo organico rispetto alle concezioni precedenti.

La nuova dottrina si differenziò dall'antica soprattutto in due aspetti fondamentali: quello religioso e quello metafisico.

Dal punto di vista del contenuto religioso, il Mahayana aveva una finalità più alta della dottrina Hinayana: mentre quest'ultima considerava fine supremo del fedele la propria individuale liberazione dal dolore dell'esistenza, il Mahayana poneva, come suo principale obiettivo, la salvazione degli uomini, raggiungibile da qualsiasi fedele con il divenire, in una futura esistenza, un Budda universale.

Per il fedele dell'Hinayana la meta è divenire un Arhat, un santo che entrerà nel Nirvana; per quello del Mahayana, invece, è di raggiungere, attraverso una lunga via, la perfezione di Bodhisattva, di un essere destinato ad ottenere la piena illuminazione, ovvero lo stato di Budda. Il premio concesso al fedele non sarà il raggiungimento dello scuro, indefinito Nirvana, ma un'eterna vita di eterno amore. Di qui la teoria non di un solo Budda, ma di molti che si presentano ogni volta che il mondo ne abbia bisogno. Il Mahayana sa già il nome del futuro Budda: Maitreya.

Sotto l'aspetto metafisico, questa nuova dottrina raggiunse concezioni ardite e preziose che trovarono la loro sistemazione concettuale nell'opera di due grandi maestri: Nagariuna e Asanga.

La dottrina di Nagariuna (II secolo d.C.) è caratterizzata da un negativismo assoluto: non solo l'io ma pure il non-io è negativo, e sono quindi negati l'essere e il non-essere. La liberazione si conquista raggiungendo la coscienza dell'universale vacuità, per la quale scompare ogni alternativa di affermazione o di negazione, che sono accettabili solo empiricamente, e il pensiero consegue il perfetto riposo, il Nirvana, che si raggiunge attraverso la prajna «illuminazione intuitiva», che distrugge l'ignoranza, origine dell'errore e quindi del dolore dell'esistenza.

Meno radicale la scuola dei Vijnana-vadin «idealisti» fondata da Asanga (secolo IV d.C.), che partendo dalla concezione che tutto è illusione, non considera questa esistenza in sé e per sé, ma ne indaga l'origine. Tale origine è nell'intelletto (vijnana), di cui la realtà empirica è la proiezione, l'oggettivazione.

La verità assoluta (bodhi) non si raggiunge che attraverso dieci gradi di perfezione (bhumi «terre»), il cui percorso richiede miriadi di esistenze e l'esercizio di pratiche di Yoga.

Il Lamaismo

Il buddismo fu introdotto nel Tibet nel VII secolo d.C.; non era il buddismo primitivo, ma quello del Grande Veicolo, impregnato di misticismo tantrico e di sivaismo. A partire dal XIV secolo, si produsse una fusione politico-religiosa: il «superiore» (in tibetano: bla-ma, che si pronuncia lama) religioso divenne un capo teocratico: è a partire da questa epoca che si parla di lamaismo come religione stabile.

Il lamaismo è un buddismo con riti complicatissimi, nel quale la vita monastica gioca un ruolo preponderante (un tibetano su 5 è monaco). É una religione sorprendente che, in un certo senso, assomiglia al cristianesimo, non nella dottrina - con la quale non ha pressoché alcun rapporto - ma per una molteplicità di atti religiosi: si riscontrano sia uno spiritualismo fra i più esaltanti e più puri, come quello di S. Agostino, sia superstizioni e bigotterie fra le più puerili. A questa vita religiosa assai ricca, si aggiunge una mitologia abbondante che si espande all'infinito (tutto è «divinizzabile», anche un libro di preghiere); l'iconografia, consacrata non solo alla vita di Budda e dei principali santi, ma anche alle divinità dei culti sivaiti e dei culti ancestrali, è impressionante.

Principali tratti del Lamaismo

  • I Dhyani-Budda. È una dottrina del Grande Veicolo che suppone che ogni Budda terrestre possieda una specie di «doppio» astratto, vivente nel mondo «celeste» e chiamato Dhyani-Budda. Il ciclo attuale del mondo comprende 5 Budda, dei quali il quarto fu Gautama, mentre il quinto si chiamerà Maitreya, che esiste a titolo di futuro Budda, cioè di Bodhisattva; il suo «doppio» metafisico non è dunque ancora un Dhyani-Budda, ma un Dhyani-Bodhisattva.
  • I lama sono i superiori dei numerosi monasteri del Tibet; si arriva a questa dignità dopo essere passati attraverso una serie di gradi religiosi subalterni. Sono considerati reincarnazioni dei santi buddisti, inferiori come gerarchia a Amithaba e a Avalokitesvara; 180 fra di loro, chiamati Hutuku, sono reincarnazioni dei Bodhisattva e di divinità diverse. I due lama principali sono il Tashi-lama («lama gemma»), il cui primato è di ordine unicamente spirituale, e il Dalai-lama (il lama pari all'Oceano), capo religioso e politico del Tibet; sono considerati rispettivamente come le reincarnazioni di Amithaba e di Avalokitesvara.
    Alla morte di un lama, si ricerca un bambino nel quale la sua anima si sarebbe reincarnata. La scelta è a tendenza politica (fino alla seconda guerra mondiale, il Dalai-lama era fedele alla Gran Bretagna, il Tashi-lama fedele alla Cina), ma le si conferisce una pompa religiosa; oltre alla riflessione sui diversi prodigi, studiati dai churchun (indovini), si fanno subire al bambino designato varie prove: per esempio si presentano a lui oggetti che sono appartenuti al lama morto, oltre ad oggetti estranei, e gli si domanda di riconoscerli (è la prova che egli si ricorda della sua vita precedente).
  • Om Mani Padme Hum. È la formula rituale scritta sulle mura, su tutti i libri del Tibet; essa è scritta più di 29.000 volte su dei fogli avvolti in bende attorno ad un manico; svolgendo questi «mulini delle preghiere» (Chu-Kor), si ritiene di aver recitato la formula 29.000 volte in tutto; un devoto che facesse girare il suo mulino delle preghiere per 24 ore, in ragione di un giro per secondo, compirebbe l'equivalente di 2.506.600.000 enunciati di Om Mani Padme Hum.

    Quanto al significato di questa formula, esso è discusso. Alcuni pensano che sia la traduzione del sanscrito: Om! Mannipadmâ! Hum!, cioè «Om! La gemma del loto! Hum».

    Accanto a questa formula magica, forma concentrata della devozione tibetana, bisognerebbe citare le innumerevoli pratiche religiose del lamaismo: pellegrinaggio ai principali santuari, festa in onore dei santi, prostrazione a ogni passo con il volto a terra quando si fa il giro di un monastero, ecc.

La morale lamaista può essere riassunta nei 24 punti d'insegnamento professati da Budda:

«Ci sono per i viventi 10 specie di atti, che si chiamano buoni; ci sono pure 10 specie di atti che si chiamano cattivi. Se voi domandate quali sono questi 10 atti cattivi... ce ne sono tre che appartengono al corpo, 4 alla parola, 3 alla volontà. I tre del corpo sono: l'omicidio, il furto e gli atti impuri. I quattro della parola: i discorsi che seminano la discordia, le maledizioni oltraggiose, le menzogne impudenti e i propositi ipocriti. I tre della volontà sono: l'invidia, la collera e il pensiero perverso» (traduzione del missionario lazzarista francese Huc, nei Ricordi di un viaggio nella Tartaria e nel Tibet, 5ª edizione, Parigi 1868).

Il lamaismo si è diffuso al di fuori del Tibet: in Mongolia, in Siberia, nel Turkestan e in certe regioni della Cina.

Il Buddismo oggi

Introdotto nel sesto secolo da monaci cinesi e coreani, il buddismo era ancora nel secolo scorso la religione principale del paese; dal 1870 circa essa ha perduto la sua posizione ufficiale a vantaggio dello scintoismo di Stato.

È certamente nel Giappone che il buddismo moderno si è sviluppato con la più grande vitalità. Le grandi università buddiste sono centri intellettuali importanti dove si studiano i testi sanscriti e cinesi: il modernismo si è mirabilmente combinato con le dottrine buddiste, e la sconfitta militare ha soltanto frenato - non distrutto - questo movimento di pensiero: comunque l'arte giapponese è stata profondamente influenzata da tredici secoli di buddismo.

Le sette.

La religione, importata dalla Cina e dalla Corea, si scisse, a partire dall'VIII secolo, in numerose scuole o sette che sono state raggruppate in 3 periodi, chiamati con il nome della città che era - al momento della loro comparsa - la capitale del Giappone: il periodo di Nara (710-794) comprende specialmente la setta Sanron e la setta Kegon-Shu (prima apparizione del Grande Veicolo in Giappone); il periodo di Heiankyo (794-1192) che vide l'espansione delle sette Tendai e Shingon; il periodo di Kamakura (1192-1603) che vide nascere in particolare la setta Zen (la setta della terra pura) o la setta Jodo e quella dei Nichiren. Tradizionalmente si contano così 12 grandi sette e circa 300 sette secondarie che riconoscono tutte una confessione di fede comune.

Ciascuna setta ha portato le sue divinità; ma sono le sette Tendai e Shingon che hanno maggiormente contribuito a popolare il pantheon buddista. Le divinità cinesi e coreane introdotte col buddismo sono numerosissime; accolte da alcune sette, rifiutate da altre, mescolate con le divinità della religione popolare (scintoismo), esse mal si prestano ad una rigorosa classificazione