“Come attestano i più antichi documenti lasciati dai Greci,
l’isola di Sicilia è stata interamente consacrata a Cerere e a Libera.
Libera, chiamata da loro Proserpina, è stata rapita nel bosco di Enna,
località che riceve il nome di ombelico della Sicilia.
(…) nell’intera Sicilia è diffusa una devozione incredibile per la Cerere di Enna (…).
La dea sembra non solo prediligere quest’isola ma addirittura abitarla (…)
non solo i Siciliani ma anche tutte le altre genti e popolazioni
tributano un culto particolarissimo alla Cerere di Enna”
Cicerone, Il processo di Verre
UN DIO TRA IL SIMETO E L’EUFRATE
In questo articolo intendiamo mettere in evidenza le sconcertanti affinità culturali e linguistiche tra i Sicani, la città sicana di Adrano e la civiltà dei Sumeri. Per la verità tali affinità dovrebbero essere estese sino a comprendere molti altri popoli, quali Ittiti, Latini, Filistei, Germani. Sarebbe difficile comprendere come siano possibili tali affinità tra popoli geograficamente così distanti gli uni dagli altri se non si facesse prima un salto indietro di diecimila anni, giungendo così alla fine dell’ultima glaciazione. Quanti, tra i lettori, avvertissero il desiderio di approfondire tale argomento potrebbero consultare il nostro ultimo lavoro: La Lunga notte. L’Occidente, i Veda e la trilogia delle “razze” umane,
Edizioni Simple
A causa della complessità dell’argomento e delle prove apportate a sostegno della migrazione dei popoli nord europei nelle nostre contrade, in epoca interglaciale, ci limiteremo in questa sede a fornire solo un breve cenno sulla tesi della migrazione, argomentata, con dovizia di particolari, nel testo di cui sopra, dando parimenti per scontate alcune affermazioni che, nel saggio in oggetto, vengono abbondantemente provate.
Un popolo proveniente dall’estremo Nord, non ancora completamente abbandonato dai ghiacci che lo ricopriva, migrò, circa diecimila anni fa, come dice il libro sacro degli Irani, l’Avesta, verso il sole, a sud. Alcuni presero i loro carri trainati dai buoi e, via terra, si spinsero ad est, verso gli Urali, altri scesero verso il sud dell’Europa. Là dove il Danubio diventa navigabile, alcuni di loro, esperti navigatori, lo percorsero fin dove esso si getta nel Mar Nero; da qui, attraverso il Bosforo o attraversando lo stesso Mar Nero, penetrarono in Anatolia, nell’attuale Turchia, dove si è rinvenuto lo stanziamento di Alaca Huyuk, vecchio di ottomila anni. Da qui alla terra dei due fiumi, la Mesopotamia, il passaggio è consequenziale.
L’altro ramo di questo popolo, quello che aveva preferito la via di terra, cominciò a stanziarsi nelle immediate vicinanze della patria abbandonata, in quei territori cioè che, man mano che si scendeva verso sud, si trovavano liberi dai ghiacci ovvero i territori del sud della Germania, della Francia, Spagna, Italia e Sicilia. Il ramo orientale e quello occidentale di questo medesimo popolo, dunque, erano portatori di un’identica cultura, che avrebbero trasmesso inalterata agli eredi ancora per alcuni millenni. Pertanto gli uni e gli altri, nell’immediatezza del loro nuovo stanziamento, per indicare cose, uomini e città utilizzarono gli stessi nomi già adottati nella terra d’origine, tuttalpiù aggiungendovi qualche attributo, reso necessario dalle diverse condizioni ambientali riscontrate nei territori di nuovo insediamento. Non mutarono i concetti religiosi né la gerarchia degli dèi, ai quali forse se ne aggiunse qualcuno, a motivo delle molteplici varianti territoriali riscontrate nei nuovi siti, come certamente accadde in Sicilia, vista la presenza terrificante di vulcani, solfatare, aridi e lunari territori lavici, presenza tale da suscitare la potente percezione di forze primordiali, che avrebbero inciso in profondità sul carattere di Sicani e Ciclopi, primi abitatori dell’isola, che agli dèi si sentirono così affini da ritenersi con questi apparentati, al punto da coniare per sé stessi termini quali Sich-ahn, “il divino in sé”, ritenendosi un riflesso del cielo, eredi di quell’uomo primordiale (Ur) apparentato agli dèi (Ahn, nonno, avo, antenato, dio).
LEGAME MITOLOGICO TRA SICILIA E MESOPOTAMIA
Vedremo adesso quali siano i punti di contatto tra la teogonia sumera, sicana e, dunque, adranita. An o Anu era il dio che stava al vertice della gerarchia fra gli dèi Sumeri; non diversamente, in Sicilia, Odhr-Anu era il padre degli dèi Sicani. Il dio Anu, in Sicilia, fu appellato anche Odhr, da cui Odhr-Anu o Adrano, attributo che significa “furioso” o “potente”, probabilmente a motivo dei frequenti terremoti di assestamento e delle frequenti colate laviche del vulcano; ma non è escluso che l’attributo fosse dovuto al dolore per ciò che, come vedremo in seguito, era accaduto alla nipote prediletta Innanna.
Anu, particolarmente affezionato a questa vispa nipote, le aveva fatto dono della splendida reggia costruita per lui dagli uomini, secondo le cronache sumere, nella terra tra i due fiumi, la Mesopotamia, per consentirle di dimorarvi durante le periodiche visite agli esseri umani, sulla terra. Il nome sumero della reggia o del territorio ove questa era stata costruita era Aenna. Ora si dà il caso che la città Sicana di Enna, in Sicilia, ombelico dell’isola per la sua centralità, nella quale era nato il mito di Persefone o Proserpina (dea dalle caratteristiche similari all’Innanna sumera), conservasse, fino al tempo di Tito Livio, il titolo di città sacra, abitata da dèi. Infatti, come racconta lo storico romano, nel 213 a.C., quando un centurione romano di nome Pinaro provocò una strage di cittadini ennesi inermi, i Romani furono così sconvolti e spaventati da tale atto, con il quale ritenevano di aver offeso e dunque provocato la collera degli dèi, da consultare i Libri sibillini, onde ricercare il modo migliore per espiare tale oltraggio e placare gli dèi.
L’identità tra le divinità ennesi e quelle della teogonia sumera è attestata dalla ricorrenza, a Sumer come in Sicilia, con leggere varianti, di un identico mito. Nella versione mesopotamica Innanna, avendo perso il fidanzato poco prima del matrimonio, era scesa negli Inferi, nel regno di sua sorella Ereshkigal, per riprendersi il futuro sposo, ma non ne fece più ritorno, se non per sei mesi l’anno. Questo stesso mito lo ritroviamo a Enna, nella versione greca, narrato da Diodoro Siculo e ripreso ampiamente da Cicerone nelle Verrine. L’uno e l’altro, contemporanei, attinsero certamente a storici più antichi. Diodoro, rifacendosi ad un’antichissima tradizione orale, sostiene che i Sicani furono i primi abitatori della Sicilia, che Demetra (Cerere per i Romani), madre di Persefone, avesse concesso il dono del grano ai Siciliani ancor prima che ai Greci e che in Grecia i misteri di Eleusi (nei quali veniva rappresentato il mito del ratto di Persefone da parte di Ade e il dolore della madre Demetra) fossero stati indetti nei confronti della dea per ringraziarla di tale dono. Pertanto il culto, celebrato in Sicilia, dei misteri di Demetra\Cerere e di Persefone\Innanna era più antico di quello greco. Su questo punto concorda Cicerone, affermando che il più antico culto tributato a Cerere fosse quello di Enna, in quanto in passato i Decemviri romani, consultati i libri sibillini che imponevano di rendere onore alla Cerere più antica, si erano recati proprio in Sicilia.
Un’ulteriore conferma circa la tesi dell’identità tra il culto della dea siciliana Persefone e quello tributato alla giovane pronipote di Anu in Mesopotamia, viene fornita indirettamente da Plutarco, nella Vita di Dione. Dione, zio di Dionigi il Giovane, era iniziato ai misteri di Demetra-Cerere e fu assassinato durante la celebrazione di questi misteri, in una sala attigua a quella nella quale, a detta di Plutarco, “vi erano molti letti”. Il particolare della sala dai “molti letti” riconduce indubbiamente ai misteri di Demetra e al rito del matrimonio sacro, celebrato in Mesopotamia tra il re e le sacerdotesse di Innanna, le quali facevano le veci della dea, ormai irrimediabilmente discesa negli Inferi. È probabile che in Sicilia il luogo di iniziazione a questi misteri fosse Pergusa, una contrada di Enna, luogo ritenuto dalla tradizione, per le sue caratteristiche - il lago, il bosco sacro, le frequenti nebbie, la presenza di qualche spelonca - la porta degli Inferi, attraverso la quale Innanna, divenuta nel frattempo la greca Persefone, era entrata nel regno dei morti. Ad Enna, dunque, veniva riprodotto il mito sumero di Innanna. Non può escludersi che potrebbe addebitarsi a questo episodio, cioè la discesa agli inferi di Innanna, la nipote prediletta di Anu, anche l’attributo Odhr, “infuriato”, apposto al dio Anu, il bisnonno di Innanna (Ahn in tedesco significa appunto nonno o Avo). Infatti le cronache sumere raccontano che Anu, appreso di aver perso la nipote prediletta, si sarebbe infuriato.
Riflettendo sulla versione sicana, arrivata a noi per mezzo dei Greci di Sicilia, del mito di Persefone, si potrebbe persino avanzare l’ipotesi secondo la quale il dio sumero Anu, avendo donato la propria reggia Aenna ad Innanna, avrebbe scelto per sé, quale nuova sede, la città di Innessa, la futura Adrano, motivo per cui sarebbe stato eretto in questa città il santuario, definito da Diodoro antichissimo, a lui dedicato. Ad ogni modo, una prova delle affinità tra il sumero Anu e il sicano Ano si può riscontrare in una, pur lacunosa, iscrizione sumera in cuneiformi, nella quale si legge: “In quel luogo luminoso …(lacuna)… la residenza di Innanna. Deposero la lira di Anu”. In questa sede non interessa tanto appurare che l’archeologo inglese Wolley, durante gli scavi nella città di Ur, abbia trovato davvero una lira d’oro, quanto piuttosto riflettere sul significato simbolico della “deposizione della lira”, che lascerebbe intendere la determinazione, da parte del dio, di dismettere le proprie vesti sacerdotali e pacifiche, per indossare forse quelle furiose del dio (Odhr). Se questa interpretazione fosse corretta si potrebbe perfino comprendere la presenza di una moneta adranita, d’oro come la lira rinvenuta in Mesopotamia, raffigurante da un lato il dio coronato di alloro e dall’altro proprio la lira in questione, con la scritta Adranitan. La testa del dio effigiata nella moneta è stata ritenuta, da alcuni numismatici e storici siciliani, la testa di Apollo. Noi riteniamo però di poter attribuire ad Adrano e non ad Apollo, la testa raffigurata nella moneta, non tanto perché lo strumento che Apollo amava suonare era la cetra, ma soprattutto alla luce delle seguenti argomentazioni. Nelle monete ricorrono le seguenti iscrizioni: Adranon, che allude al dio; Adranos, utilizzato in ambito non religioso; Adranoy, che fa riferimento al popolo degli Adraniti; Adranitan, che definisce la casta sacerdotale, unica deputata ad invocare il dio Adrano. Odhr-An-heitan (Adranitan) significa, infatti, “furore-dio-evocare”, dal momento che i sacerdoti del dio Odhr-anu, cioè gli Adranitani, svolgevano un ruolo di intermediari tra il dio e il popolo, evocando (heitan in gotico) quell’aspetto che di lui si voleva richiamare, quello bellico o quello propriamente mistico-religioso. Il dio era appellato Odhr, il furioso, quando se ne richiamava l’aspetto bellico ed in questo caso veniva effigiato con il volto barbuto, l’elmo e la scritta Adranon; lo si raffigurava con l’alloro sul capo, imberbe, con sembianze giovanili, con la lira e la scritta Adranitan quando si voleva evocarne l’aspetto mistico\religioso. La lira, in questo caso, era considerata lo strumento, utilizzato dai sacerdoti, indicati nella monetazione con la scritta Adranitan, che provocava l’estasi divina.
In Mesopotamia la casta sacerdotale prendeva invece il nome di Annunaki da An-nun-akt, traducibile come “coloro che compiono gli atti dettati da Anu”. A differenza degli Adranitani, che con le loro invocazioni inducevano direttamente la divinità ad intervenire, gli Annunaki erano invece loro stessi ad agire in nome del dio, tanto che, nella mitologia sumera, gli Annunaki vengono rappresentati come una sorta di “braccio armato” del dio Anu. L’atteggiamento più mistico degli Adranitani, incapaci di agire personalmente in nome del dio, sarebbe coerente col racconto fatto da Plutarco nella Vita di Timoleonte, dove lo storico riferisce che, in occasione della celeberrima battaglia, si videro le porte del tempio spalancarsi, la statua del dio che scuoteva la lancia e la sua fronte sudata, come di chi compie una fatica. Il simbolismo venne interpretato dagli Adranitani come se il dio, l’Avo, uscendo dal tempio, avesse personalmente preso parte alla battaglia al fianco del condottiero Timoleonte, tornando poi al tempio vittorioso e sudato per la fatica.
LEGAME TOPONOMASTICO TRA SICILIA E MESOPOTAMIA
I punti di corrispondenza tra Sicilia e Mesopotamia continuano in ambito toponomastico: Ebla o Ibla, secondo i più antichi Annali, era un’importante città nei pressi di Aleppo, nell’attuale Siria, la quale raggiunse il suo massimo splendore intorno al 2500 a.C. Ebbene in Sicilia, oltre che la nota catena montuosa dei monti Iblei, vi furono diverse città con questo nome, la cui certa fondazione va attribuita al principe sicano Iblone. Nella Ibla mediorientale veniva onorato il dio Kura, nome caratterizzato da evidente assonanza con il nome del dio Urio, onorato a Siracusa. Il tempio dedicato a Kura era, secondo la datazione stabilita dagli archeologi, il più antico edificato ad Ebla. Se si considera che il rito celebratovi consisteva nel rinnovo dell’autorità regia, non si può non andare con la mente alla descrizione ciceroniana della statua del dio Urio in Siracusa, le cui sembianze venivano esplicitamente ricondotte a quelle di un dio imperatore. Gli studiosi del Medioriente hanno tradotto il nome di Ebla come “pietra bianca” a motivo delle caratteristiche geologiche del luogo in cui la città venne fondata. Il nome sarebbe calzante anche per la siciliana Megara Ibla, i cui resti si trovano nell’attuale cittadina di Augusta, ma non per la Ibla gereatis, l’attuale Paternò, che è fondata sul nerissimo basalto. Pausania tramanda di un non ben precisato culto che si teneva per la dea Ibla in questo piccolo villaggio alle falde dell’Etna. Alla luce di tali deduzioni riteniamo che il nome sicano di Ebla sia una corruzione del germanico ab Hel, che significa “dal Cielo”, magari con il riferimento alla pronipote del dio Anu, Innanna, la quale a Sumer veniva appellata “colei che discende dal Cielo” o “figlia del Cielo”. Infatti la Ibla etnea, cioè Paternò, sarebbe il luogo ideale per erigere un tempio a questa dea visto che, tutt’oggi, in contrada Salinelle, vi sono dei piccoli geyser che ricondurrebbero, interpretando le antiche credenze, a un luogo collegabile con gli Inferi, dimora di Innanna. Pausania lasciava intendere che qui si praticasse un culto misterico legato ad una dea ritenuta autoctona.
Continuando l’indagine in ambito toponomastico abbiamo ancora Agade, Akkad in lingua semita, la città natale di Sargon, il re che amava definirsi sacerdote di Anu e protetto di Innanna (Ishtar in akkadico), che ha il suo corrispettivo nella cittadina siciliana di Acate, la quale si trova nei pressi di Caltagirone, nel piccolo centro che ricade nell’attuale provincia di Ragusa, l’antica Ragusa Ibla. Anche la definizione di terra tra i due fiumi data alla Mesopotamia si presta ad un’identificazione geografica con il territorio siciliano compreso tra il Simeto e il Salso. Infatti Enna, cioè la reggia di Anu, successivamente regalata alla nipote Innanna/Persefone, e Adrano, città che, come la corrispondente Uruk in Mesopotamia, fu la successiva dimora del dio, si trovano anch’essi su un’area che insiste tra due fiumi, il Simeto ed il Salso. In questo luogo di grande bellezza paesaggistica, ove sono visibili ancora resti dei luoghi di culto, la tradizione adranita pone la Valle delle Muse e il culto agli dèi Palici, nome che rimane legato alla contrada detta di Polichello.
Il culto tributato al dio Anu in Mesopotamia e al dio Odhr-Anu o Adrano in Sicilia trova corrispondenza anche nel nome di particolari caste sacerdotali, nelle rispettive aree geografiche. Da tavole cuneiformi ritrovate a Babilonia, emerge che in Mesopotamia vi era la presenza di un sacerdote chiamato Urigallu, il quale celebrava un rito che aveva a che fare con l’ingresso del nuovo anno. Finita la preghiera sacra, il sacerdote mesopotamico Urigallu “apriva la porta del tempio” per fare entrare i sacerdoti, detti Eribbiti, accompagnati a loro volta da musici e cantori. Tralasciando il fatto che l’apertura delle porte del tempio e i festeggiamenti del nuovo anno riconducono a Giano (jah-Ano), il dio dei Sicani stanziati nel Lazio, e in qualche misura allo stesso Adrano, di cui i sacerdoti osservarono la miracolosa apertura delle porte del tempio durante la battaglia contro Iceta, notiamo l’affinità tra il nome del sacerdote e il dio Urio, onorato nel tempio di Siracusa, come apprendiamo dalle Verrine di Cicerone, dove si legge: “A Siracusa c’era la statua di un Giove Imperatore che i Greci chiamano Urio”. Atteso che al tempo di Cicerone l’etnia sicula era ormai definitivamente assimilata a quella greca, non può tuttavia passare inosservato che Ur, in lingua germanica, a nostro giudizio la lingua originaria dei Sicani\Siculi (vedasi Dalla Skania alla S(i)kania), significa antico, primitivo, primordiale ed era un appellativo di Ano (Ur-ano per i Greci cioè l’Avo primevo); per tale motivo l’attributo Ur non può che riferirsi all’Avo per antonomasia, Adhrano.
Per ciò che riguarda la presenza in Mesopotamia dei sacerdoti detti Eribbiti, per i quali l’Urigallu rappresentava il sommo pontefice, crediamo probabile che il corrispettivo ruolo, in Sicilia, fosse esercitato dagli Erbitei, che lo storico greco di Sicilia, Diodoro, erroneamente identificò esclusivamente con gli abitanti di Erbita. Riteniamo invece che originariamente gli Erbitei fossero i sacerdoti del dio Urio, cioè l’Avo primevo, dal momento che il termine Erbitei sembrerebbe essere riconducibile al vocabolo germanico erbe, erede (di Urio cioè dell’Avo primevo), oppure al verbo erbitten, che in tedesco ha il significato di “ottenere pregando”. Solo successivamente gli abitanti della cittadina in cui si praticava il culto di Urio, per estensione, presero il loro nome dall’originaria casta sacerdotale, proprio come accadde per gli Adraniti.
LA MITOLOGIA SICILIANA È PIU’ ANTICA DI QUELLA SUMERA ?
Se volessimo interpretare fino in fondo il mito sumero, potremmo spingerci fino ad ipotizzare una maggior vetustà del mito siciliano rispetto a quello mesopotamico. Infatti, dando credito a Diodoro e Cicerone, i quali sostengono che il mito siciliano di Demetra-Cerere sia il più antico del mondo, e soprattutto prendendo per buone le cronache sumere relative al mito del dio Enki, figlio di Anu e creatore della civiltà mesopotamica, giunto in Mesopotamia dal Mare occidentale, presumibilmente il Mediterraneo, si dovrebbe concludere che la mitologia siciliana è davvero più antica rispetto a quella sumera.
Seguendo questo ragionamento avremmo di conseguenza la possibilità di tracciare il logico percorso geografico che il mito dovette seguire. Partendo dalla Sicilia, il mito mesopotamico relativo ad Enki e al padre Anu sarebbe approdato in Grecia, per giungere infine in Medioriente. Si spiegherebbe così l’affermazione ciceroniana secondo la quale il pretore romano Verre avrebbe rubato la statua più antica del dio Urio, che si trovava appunto a Siracusa, mentre le altre due copie, meno antiche, si trovavano una in Grecia e l’altra in Medioriente. Le tre statue effigianti l’Avo, simbolo della religione degli antenati, segnerebbero in tal modo le tre tappe progressive segnate dal mito: Adr-ano (o Urio) in Sicilia, Ur-ano in Grecia, Ano in Mesopotamia. Esse sarebbero state la rappresentazione plastica del medesimo concetto di divino e dell’unica originaria religione, che potremmo definire, oltre che Indoeuropea, la “religione dell’Avo” (Ano in antico alto tedesco). Di questa tesi, che individua un percorso di unificazione religiosa e di civiltà che procede da Occidente verso Oriente, non dovremmo scandalizzarci neanche troppo visto che, già in età pre-storica, alcuni miti individuavano la provenienza italica di ecisti di città orientali: è il caso del fondatore di Troia Dardano, il quale proveniva dalla Tirrenia, regione che, prima ancora di essere etrusca, fu sicana. Enki, Giasone ante litteram, secondo la nostra reinterpretazione del mito sumero, fu l’esploratore, inviato dal padre Anu (Odhr-anu) e proveniente, come sostiene lo stesso racconto sumero, “dal Mare occidentale”, il quale avrebbe dato vita alla civiltà Sumera. La provenienza dal Mar Mediterrane di Enki avrebbe altresì favorito l’attribuzione della denominazione Sumer, che significa “dal Mare”, zu-mer (poi divenuto Su-mer in seguito alla rotazione consonantica, meglio conosciuta come legge di Grimm), all’equipaggio al seguito di Enki.
Della migrazione pre-storica da occidente-oriente, direzione inversa a quella sostenuta fino ad oggi, al punto da generare l’abusato motto ex orient lux, hanno dato implicita conferma anche insigni personalità religiose quali sua Divina Grazia A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, il quale afferma che “i Veda non sono scritture proprie dell’India” ed ancora “Trita, figlio di Gautama, era un saggio e veniva dall’Europa”! A quanto sostenuto da Sua Divina Grazia si aggiunga che le cronache sumere, riportate sulle tavolette in cuneiformi, alludono ad una divisione del mondo in tre settori riservati agli uomini, effettuata dagli dèi; gli dèi avrebbero riservato per sé il quarto settore, l’occidente. Curioso che all’interno dei tre settori riservati agli uomini, secondo la tradizione ciceroniana, ritroviamo le tre statue del dio primordiale Urio.
Accertata ormai l’affinità culturale tra Sicani e Sumeri, resta da accettare il concetto della maggiore vetustà della prima, la Sicana, rispetto alla seconda. A tal proposito siamo certi che se questa civiltà fosse stata traghettata nel senso inverso rispetto a quello che fin qui abbiamo mostrato, cioè se essa fosse arrivata in Sicilia o, se vogliamo, in Occidente, dalla Mesopotamia, di certo avremmo trovato almeno un riferimento ad uno di questi viaggi sumerici in occidente, in una delle migliaia di tavolette ritrovate. Invece in esse si allude sempre all’arrivo dall’occidente di dèi o condottieri che portano leggi, progresso e cultura, così come nel mito di Demetra che, provenendo dalla Sicilia, faceva dono della conoscenza del grano ai Greci. D’altro canto non possiamo non riflettere sul fatto che, se è pur vero che in Mesopotamia si sviluppò, intorno al 4.000 a. C., la civiltà sumera, è altrettanto vero che sulle coste siracusane, 18.000 anni fa, come dimostrano i reperti ritrovati, vi erano già comunità umane, come quelle che nell’Addaura, presso Palermo, 20.000 anni fa, lasciavano incisioni rupestri artisticamente evolute. Dal 20.000 al 4.000 a.C. i Siciliani si saranno pur mossi dalle loro sedi.
L’antroponimia sicana e quella sumera hanno non pochi punti di contatto: si fa veloce riferimento anche all’affinità tra Etna, probabile nome della figlia di Teuto, principe sicano di Innessa (futura Adrano), ed Etana, re della città mesopotamica di Kish, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo (Il culto degli antenati); non meno significativa l’affinità tra Aloro, primo re mitico della Mesopotamia, secondo la cronologia fornita dal sacerdote babilonese Beroso, vissuto nel V-IV sec. a. C., ed Eloro, antico insediamento archeologico presso Noto e vicino a Siracusa, dove si onorava il dio pre-greco Urio. Eloro è un nome composto dal lessema Hel, Cielo, inteso come spazio fisico ma pure come dimensione ultra-fisica, e Ur, antico, primevo, primordiale, con allusione ad un’umanità emanazione del Cielo.
Quanto affermato sopra sul significato di alcuni nomi di persona si inserisce nel discorso sul simbolismo cosmico rappresentato dalla spirale, dalla croce potenziata, dalla ruota o carro del sole, dalle stelle e dai soli impressi sui reperti sicani\siculi esposti nel museo di Adrano, aprendo ulteriori interrogativi. Benché di essi si posseggano solo pochi esemplari, sono tuttavia sufficienti per lasciare intendere che i Sicani possedessero già delle conoscenze astronomiche, anche se gli studi fino ad ora condotti non hanno affrontato tale tema. Confidiamo, al fine di poter basare le nostre convinzioni, supportate solo dalle fonti degli storici e dalle nostre deduzioni, che possano essere condotti studi seri e scavi scientificamente condotti nell’area del Mendolito. Forse la valle delle Muse, ad essa limitrofa, luogo di rituali ancestrali, potrebbe riservare gradite sorprese. Infatti anche qui, in un roccia di pietra lavica sotto la quale scorre una fonte d’acqua, è incisa un’epigrafe rimasta a tutt’oggi indecifrata. Un laboratorio di studi permanente finalizzato all’interpretazione della lingua sicana, con sede nella città di Adrano, nel quale possano convergere linguisti, archeologi, etimologi, semantisti, ispirati dalla presenza della pietra urbica, reliquia dei nostri avi, o di una copia fedele di essa, aiuterebbe a comprendere ancor più un mondo che riusciva ad esprimere attraverso la lingua concetti che noi moderni non riusciamo a penetrare altrettanto facilmente. Esempio della pregnanza semantica dei termini delle antiche lingue indoeuropee è il vetusto e semplice lessema An che, pur alludendo sia al Cielo che all’Avo e alla Divinità, collega tutti questi vocaboli, li fonde e plasma assieme, come in un unico monolite; premettendo infine al lessema An il pronome riflessivo di terza persona, Sich, questa lingua fa del Sich-an, la sintesi di dio, della spiritualità o della proiezione dell’uomo alla dimensione ultra-mondana.
Potremmo continuare a lungo nell’elencazione delle numerose similitudini tra Sicilia e Mesopotamia, ma per motivi contingenti non ci è concesso esaurire tale elenco in un unico, breve articolo. È tuttavia nostro intento studiare e ricostruire l’origine delle civiltà di cui sopra nel nostro prossimo saggio. Volendo prevenire il probabile intervento di chi contesta il metodo dei nostri studi e le nostre tesi, chiariamo ai nostri lettori che nulla di quanto da noi affermato è stato sottoposto all’attenzione della comunità scientifica e che tali tesi non rappresentano un dogma. A noi piace sottoporre le cose che riguardano più direttamente il nostro territorio, nonostante le aperture geografiche inimmaginabili emerse dalla lettura dell’articolo, ancor prima che al vasto pubblico, ai nostri concittadini, gli Adraniti, ritenendoli capaci di dar giudizi e valutazioni, non condizionati dai pregiudizi e dagli ispe dixit che gli studiosi, “figli” di univoche di pensiero, potrebbero aver acquisito.
Il solo quesito che vorremmo porgere attraverso questo articolo è il seguente: quanto da noi qui brevemente documentato può essere sbrigativamente liquidato, in quanto ritenuto soltanto un “numero infinito” di semplici coincidenze?
Francesco Branchina