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Dionisio si consegna a Timoleonte
Dionisio si consegna a Timoleonte

Per quanto i Greci di Sicilia si dimostrarono infidi nei riguardi degli ospitali Sicani, ricambiando l’accoglienza fraterna e generosa con l’inganno, come dimostra il caso di Archia, esiliato da Corinto e accolto a Siracusa, dove diede inizio alla tirannide, noi, eredi dei pii Adraniti e, come loro, cultori e ricercatori di una verità oggettiva, non possiamo astenerci dall’esigenza di svelare le mistificazioni storiche, da qualsiasi parte esse provengano, anche se da questa operazione trae in questo caso beneficio proprio un tiranno greco, alla cui cacciata, avvenuta nel 344 a.C., proprio gli Adraniti diedero un decisivo contributo. Riscatteremo pertanto dalla damnatio memoriae, cui è stato ingiustamente rilegato dagli storici, Dionigi il Giovane, che dal padre ereditò sì la tirannide su Siracusa ma non la medesima crudeltà, tanto che egli, dopo un sofferto travaglio interiore, volontariamente abdicò affinché la polis potesse essere governata democraticamente.

La nostra indagine, finalizzata ad esaminare l’intero operato del tiranno, trae supporto dagli scritti di Plutarco e, soprattutto, di Platone, il quale ebbe col tiranno relazioni personali, scrivendo di lui di proprio pugno. In particolare risulta utile la lettura della Settima lettera ai parenti di Dione, cognato e zio di Dionigi il Giovane, redatta da Platone dopo la morte di Dione, in risposta alle richieste dei parenti di questi, i quali sollecitavano il filosofo a caldeggiare e ridare vita all’attività antirannica dell’estinto. Di tale documento però è necessario operare una lettura introspettiva, diffidando di quanto affermato apertamente dallo scrittore in merito al giudizio, non certo positivo, sulla tirannide di Dionigi e leggendo tra le righe quanto comunque trapela circa le doti umane e intellettuali del giovane tiranno e filosofo. Del resto non è da escludere la possibilità che il grande ateniese, scrivendo tale lettera ed avvertendo il peso di una sua probabile trasmissione ai posteri o comunque di una sua divulgazione pubblica, abbia volontariamente e accortamente, da grande retore, utilizzato le parole per delineare un elogio della democrazia. Un utilizzo strumentale della scrittura non deve stupire; basti pensare all’affermazione di Dionigi di Alicarnasso il quale, qualche secolo dopo rispetto alla lettera di Platone, redarguendo il collega Tucidide, che aveva raccontato una guerra vergognosa per i Greci, afferma che i poeti e gli storici greci avrebbero dovuto scrivere solo di ciò che tornava utile al prestigio greco. Anche Platone è pienamente consapevole della responsabilità dei poeti nel consegnare alla storia la buona o la cattiva fama dei governanti, come afferma nel trattato Il Minosse, in cui si disquisisce di leggi e legiferatori. In questo trattato il personaggio Socrate, all’affermazione di un interlocutore il quale, sulla base del mito, qualificava il re cretese, da cui l’opera prende il nome, come un re arrogante e iniquo, rispondeva asserendo che il re doveva essere stato di certo giusto ed equilibrato visto che, in un’ulteriore versione del mito, il re cretese alla sua morte era stato preposto nell’Aldilà ad esaminare le anime. Commentando il dialogo, Platone spiega ai lettori che il mito negativo di Minosse sarebbe stato elaborato ad arte dai poeti attici per vendetta, in seguito ai pesanti tributi che il re minoico aveva imposto alla città di Atene dopo aver conquistato l’Attica intera. Il filosofo continua affermando che inimicarsi i poeti è un’operazione sconveniente per chiunque. È dunque autorevolmente supportata e diffusa l’opinione secondo la quale le mistificazioni degli storici, dovute a ragioni di stato, possano alterare la verità storica, dipingendo di volta in volta immagini false dei sovrani, i quali vengono disegnati ora come abietti e dispotici, ora come illuminati, proprio come illustra l’ esempio di Minosse e, come dimostreremo di seguito, di Dionigi.

Rimanendo dunque, da parte nostra, pienamente condivisibile la riflessione di Platone circa la faziosità e l’inattendibilità dei narratori, ci permettiamo di porre un breve accento sul caso specifico di Minosse. Qui noi dissentiamo dal filosofo e assumiamo come vera, sulla base di un’analisi etimologica del suo nome, la versione del mito che presentava il re cretese iniquo e arrogante. Di volata, per diletto dei nostri lettori, facciamo osservare infatti che il nome Minosse è formato dai lessemi Min, “mente, intelletto” (che ricorre anche nel nome Minerva, la dea nata dalla testa o, metaforicamente, dall’intelletto, cioè dal nous di Giove) ed Hass che significa “odio, avversione” (che ricorre anche nel nome Assalonne, il quale, al fine di rendersi “odioso” al padre Davide, al quale contendeva il regno di Israele, dietro suggerimento del suo consigliere Achitofel , si unì pubblicamente con le concubine del padre). Il nome Minosse è dunque un attributo conferito al re cretese che significa “odioso” (hass) a motivo del negativo utilizzo della sua grande intelligenza (min). Onde avvalorare il significato etimologico dell’appellativo con cui il re cretese venne ricordato e dunque la credibilità del mito che lo voleva un individuo odioso ed arrogante, crediamo che non dovette fargli difetto l’ingordigia, visto che l’inestinguibile fame di potere lo aveva condotto pure in Sicilia. Nell’isola, il re si sarebbe recato al fine di ottenere l’architetto Dedalo, che si era rifugiato alla corte del re sicano Cocalo. In realtà vi si era recato per rendere tributaria anche l’isola, governata dai ricchi principi sicani, come aveva già fatto con quasi tutta la Grecia.

Non possiamo omettere di dire, forse irriverentemente, che Platone se da un lato mette in guardia i suoi lettori dalla faziosità dei poeti, dall’altro non riesce a divincolare se stesso dai vischiosi lacci della partigianeria. Questi risultano particolarmente evidenti nella già citata settima lettera, inviata ai parenti dell’amico e discepolo Dione, zio e cognato di Dionigi il Giovane. Nella lettera in oggetto il filosofo esalta le dubbie virtù di Dione, virtù inesistenti però stando all’analisi dei fatti, dai quali risulterebbe una mal celata propensione dell’uomo alla tirannide. Lo stesso popolo, se dobbiamo dare credito a Plutarco, lo definiva di già tiranno e mostrava di non apprezzarlo, preferendo a lui il suo compagno di avventure Eraclide. Nella stessa lettera emergono altresì, attraverso una più attenta lettura, una serie di contraddizioni nel giudizio che il filosofo delinea del giovane Dionigi, che appare pervaso da mille dubbi di ordine etico, costantemente volto alla ricerca di un equilibrio interiore che trovò, forse, con la decisione di abbandonare la tirannide, che tanti lutti e dispiaceri gli aveva procurato. Ceduto il potere a Timoleonte e recatosi in volontario esilio e in povertà a Corinto, imitando quei saggi principi Veda che, dopo avere regnato saggiamente per decenni, abbandonavano il regno per recarsi, da asceti, fra le montagne dell’Himalaya in assoluta povertà, il giovane tiranno adempiva probabilmente a dei precetti filosofici che da tempo accarezzava, ma da cui era stato distratto dai perfidi consiglieri di corte.

DALLA VII LETTERA DI PLATONE AI FAMILIARI DI DIONE.

Morto Dione, cognato e zio di Dionigi il Giovane, i parenti del defunto, come aveva già precedentemente tentato lo stesso Dione con parziale successo, avrebbero voluto coinvolgere il filosofo ateniese nella guerra, ormai non solo politica, combattuta contro il giovane tiranno, per deporlo. Platone, pur consapevole di essere già stato usato in maniera analoga da Dione, come trapela tra le righe della lettera in oggetto, pur rifiutando ogni forma di collaborazione, non può fare a meno di tessere le lodi del discepolo.

Lo fa forse per celare, innanzi tutto a se stesso, il fallimento della Filosofia quale arte che guida al Giusto e al Bene e l’inadeguatezza del suo personale apporto alla formazione politica di Dione, avvenuta in Sicilia presso la corte di Dionigi il Vecchio, basata su un insegnamento filosofico finalizzato a mutare in meglio lo spirito degli uomini. Quando Platone si rese conto che l’assassinio di Dione era stato attuato proprio da frequentatori dell’Accademia, che il capo del complotto era stato Callippo, avverte ma non accetta il fallimento della filosofia; Callippo viene così sconfessato, privato del suo titolo di filosofo e considerato solo come l’iniziatore di Dione ai misteri. Del resto un altro seguace dell’insegnamento socratico, Alcibiade, durante la guerra del Peloponneso aveva tradito la propria patria prestando i suoi servigi alla nemica Sparta. Infine, al filosofo ateniese pesava ancora il ricordo dell’insuccesso della sua prima esperienza a Siracusa, nella corte del vecchio Dionigi. Qui le profonde esternazioni o astrazioni filosofiche non avevano sortito alcun effetto sul navigato tiranno che, considerando il filosofo ateniese un abile oratore, indagatore dell’astratto e perciò del tutto ignaro del senso pratico della vita e preferendo dunque alla filosofia la realtà pratica della politica, aveva colto l’ occasione per disfarsi dell’Ateniese ponendolo sulla prima nave che si allontanava dall’isola. L’elogio di Dione contenuto nella lettera consente dunque al filosofo di dissimulare o limitare, soprattutto a se stesso, i limiti della formazione filosofica.

Ma torniamo alla lettera di Platone. Da essa emerge che Dione, dopo il fallimento del suo tentativo di convincere il cognato Dionigi il Vecchio a praticare una politica più morbida e di maggior condivisione parentelare del potere, servendosi del filosofo aveva cercato di piegare agli stessi obiettivi il giovane figlio di Dionigi il Vecchio, erede della tirannide siracusana. A tal fine Dione invitò in Sicilia il filosofo, motivando tale richiesta di aiuto con il nobile fine di democratizzare la tirannide del cognato e nipote Dionigi il Giovane e nascondendo abilmente il suo vero interesse cioè quello di essere associato al regno del nipote. Interesse che non sfugge però allo storico romano Cornelio Nepote il quale, nel suo trattato Vita dei massimi condottieri, afferma che Dione in varie circostanze e soprattutto quando Dionigi il Vecchio era in punto di morte, aveva inutilmente tentato dei colpi di mano. Platone, che accettò l’invito e venne accolto in pompa magna dal Giovane, dal canto suo credeva nella possibilità che il tiranno potesse evitare di commettere i medesimi errori del padre e a tal fine lo invitava a “darsi da fare per trovare altri tipi di amici fra i congiunti e i coetanei, persone che condividessero con lui l’aspirazione alla virtù”.

Nella lettera, Platone non nasconde l’attrazione del giovane Dionigi per la filosofia. Non escludiamo l’ipotesi che fosse stato lo stesso Platone a trasmettergli tale passione e la conseguente sete di conoscenza già durante il suo primo viaggio in Sicilia, nel 389 a.C., quando il futuro tiranno era appena adolescente e dunque facile preda del carisma di un grande maestro. Per quanto l’ateniese non parli mai di sé come maestro di Dionigi, il romano C. Nepote afferma addirittura che la rinuncia di Dionigi il Giovane alla tirannide su Siracusa e il volontario esilio, trascorso in piena povertà a Corinto, siano stati possibili solo grazie agli antichi insegnamenti di Platone, il quale aveva seminato su uno spirito già fornito di humus filosofico: “Platone influì tanto su Dionigi con la sua autorità e con la sua eloquenza da indurlo a rinunciare alla tirannide e a restituire la libertà ai Siracusani”.

In merito alla formazione culturale di Dionigi, appare scontato che dovette avere maestri di indubbio talento, come lo storico e filoso Filisto, capace di “tener testa allo stesso Platone” (C. Nepote), di cui è appurata la presenza presso la corte di Dionigi il Giovane, grande amico del padre di Dionigi fin dai primi giorni della tirannide. Non si dimentichi inoltre che la Sicilia era la terra del retore Gorgia e che, fin dai tempi di Jerone, Siracusa aveva accolto prestigiose personalità del mondo della cultura quali Eschilo, Bacchilide, Pindaro e molti altri. A riprova delle doti intellettuali di Dionigi, si noti che lo stesso Platone sembra meravigliarsi del fatto che il Giovane fosse stato in grado di scrivere un trattato sui princìpi primi e supremi della natura in seguito ad un unico colloquio sull’argomento avuto con lui. “Io glieli esposi una sola volta ed in seguito mai più”, afferma nella lettera il filosofo, che aggiunge: “Dionigi, dopo aver ascoltato una sola mia conversazione, pensava di saperne ed effettivamente ne sapeva abbastanza, per aver trovato da solo la verità o per averla appresa già prima da altri”. Tale osservazione mette a nudo l’intelligenza del tiranno, la cui unica colpa era quella di essere stato educato alla corte di un tiranno con un’educazione adeguata al rango e al ruolo politico cui era destinato. Ma quella educazione non doveva essersi dimostrata sufficiente a plasmare “il tiranno” se lo stesso Dionigi il Vecchio si lamentava dell’attrazione del figlio per la filosofia.

Platone, come abbiamo già affermato, nei confronti del giovane tiranno mostra spesso sentimenti controversi. Non lo dipinge mai come un mostro, anzi sovente mette in luce la di lui magnanimità. Infatti il filosofo afferma di essere stato trattato molto bene anche quando il tiranno avrebbe potuto avere tutti i buoni motivi per ucciderlo, essendo stato coinvolto, suo malgrado, in una cospirazione antitirannica macchinata da Dione e dai suoi accoliti, tra i quali un certo Eraclide, capo dei mercenari che alloggiavano a Siracusa, e un certo Teodato, per i quali Platone si era adoperato al fine di farli rientrare nelle grazie del tiranno. A tal proposito Platone scrive:

“Non mi ha mai messo a morte, ma anzi mi ha in certo modo rispettato. Io del resto, non ho più l’età per combattere a fianco si può dire di nessuno; sarò di certo con voi se, provando bisogno di reciproca amicizia, cerchereste di fare qualcosa di buono; ma finché siete a desiderare il male, chiamate in aiuto qualcun altro”.

I sospetti di cospirazione che Dionigi nutriva nei confronti di Dione, confermati tra l’altro in queste righe in cui Platone accusa i suoi interlocutori, sostenitori del cognato, di agire per il male, erano più che fondati, così come le accuse di intelligence col nemico cartaginese, confermate dal fatto che Eraclide, braccio destro di Dione e comandante dei mercenari di stanza a Siracusa, una volta scoperto il complotto contro Dionigi, ripara presso i Cartaginesi e che lo stesso Dione poco dopo, quando rientra in Sicilia dall’esilio, sbarca ad Eraclea Minoa, dove viene accolto fraternamente dal comandante cartaginese il quale, col suo contingente, occupava la cittadina.

Che Dione volesse semplicemente sostituirsi a Dionigi nella tirannide, non intendendo dividere il potere con Eraclide suo complice, che fece uccidere, continua ad affermarlo C. Nepote riportando i discorsi del cospiratore: “Dione andava ripetendo: uno stato non può essere ben governato se comandato da molti. Sentenza che gli procurò molta odiosità”. Lo storico romano, onde confermare che l’uccisione di Dione era gradita da molti, racconta che nessuno fece nulla per fermare i pochi assassini, sebbene il siracusano fosse stato assassinato in una sala gremita di persone. C. Nepote continua ancora sostenendo, tra l’altro, che anche l’esercito cominciò ad accusare Dione di tirannide e, soprattutto, di una tirannide insopportabile.

Che il giovane tiranno avesse in grazia il filosofo ateniese, dal quale intendeva apprendere la filosofia, lo confermerebbero le sue generose concessioni a Dione, fatte per rispetto nei confronti di Platone. Dionigi avrebbe inviato a Dione, che si trovava già in esilio a Corinto, una metà dei suoi beni (secondo C. Nepote tutti), mentre l’altra metà li avrebbe lasciati al figlio di Dione, Ipparino, nonché suo nipote, che invece era rimasto a Siracusa. Il giovane tiranno avrebbe concordato direttamente col filosofo le modalità per far rientrare in patria l’esule. A Platone, il quale chiedeva che Dione continuasse a vivere a Siracusa affinché il suo esilio non destasse sospetti, Dionigi promise che lo avrebbe accolto nuovamente in patria, qualora avesse ricevuto una promessa a garanzia della fine delle attività cospirative di Dione. Riportiamo le parole di Dionigi:

Per amor tuo io mi comporterò così nei suoi riguardi. Mi par giusto che lui, ritornato in possesso dei suoi beni, se ne stia ad abitare nel Peloponneso, non come un condannato all’esilio, ma con la possibilità di far ritorno qui, non appena io, lui e voi che gli siete amici non abbiamo trovato una base d’accordo comune; nient’altro che questa: che non cospiri più contro di me.
Tu, i tuoi familiari, e i familiari di Dione che sono ancora qui vi farete garanti di ciò, mentre lui stesso offrirà garanzie per voi. Il denaro che gli si invia, sarà depositato nel Peloponneso e ad Atene presso persone di vostra fiducia: Dione potrà riscuoterne gli interessi, ma non ne potrà disporre senza una vostra autorizzazione. In verità io diffido alquanto di lui, e non vorrei che divenendo legittimo proprietario delle sue ricchezze, che non sono esigue, le usasse poi contro di me. Di te, invece, e dei tuoi mi fido molto di più.”

Platone, per quanto “questo discorso non” gli “piacque affatto”, si ritrovò ad accettare la proposta di Dionigi.

Dunque, per ciò che ci è dato ad intendere dal contenuto della lettera, dal confronto generale con Dionigi, qui e altrove, Platone si trova in una posizione di subordinazione, persino dialettica, rispetto al giovane tiranno. Il che, conoscendo la personalità del filosofo, ci pare a dir poco incredibile. Se la prova dell’autenticità della lettera dipendesse da ciò e dalle contraddizioni che emergono nel corso della lettura nel delineare il personaggio di Dionigi, allora non nasconderemmo le nostre perplessità a riguardo. Ma non avendo noi prove scientifiche che contestino l’autenticità della lettera o quanto meno una sua manipolazione ad arte, ci affidiamo al giudizio degli esperti che l’hanno ritenuta tale. Per ciò che concerne la personalità del tiranno, anche qualora questa lettera non fosse stata scritta da Platone o fosse stata manipolata, essa emergerebbe egualmente nella sua genuinità, specialmente se si tiene conto anche delle notizie preziose contenute in Plutarco e in Cornelio Nepote.

LE TESTIMONIANZE DI PLUTARCO.

Plutarco è più attratto dalla vita di Dione che da quella del giovane Dionigi, tanto da dedicare solo al primo una delle sue opere. Comunque lo storico, all’interno della Vita di Dione, fornisce su Dionigi una corposa documentazione e molti spunti di riflessione, alcuni dei quali ci portano a rivalutare la figura del tiranno. Uno di questi è il momento in cui Dionigi decide inspiegabilmente di rinunciare alla lotta in atto contro Iceta, tiranno di Lentini, che lo teneva sotto assedio nell’inespugnabile isolotto di Ortigia, cedendo il potere e la città ad un terzo contendente, Timoleonte, che aveva appena battuto Iceta in una battaglia combattuta nei pressi di Adrano.

Perché una tale improvvisa e inspiegabile rinuncia alla lotta? Perché Dionigi accetta o sceglie l’esilio, in condizioni di semi-povertà, quando avrebbe potuto almeno negoziare con Timoleonte una resa onorevole e vantaggiosa sotto il profilo economico? Alla luce del profilo dell’uomo sopra delineato, tenuto conto della sua formazione filosofica, avvenuta a dispetto del malanimo del famoso padre nei confronti della filosofia, possiamo ipotizzare che, in seguito ad un travaglio interiore originatosi fin dall’adolescenza, quando era ancora un giovane e solitario principe, Dionigi, posto di fronte alle scelleratezze originate dall’esercizio del potere e della tirannide, abbia scelto la via della saggezza filosofica.
Dionigi dovette considerare, durante l’assedio cui era sottoposto, che il potere è un’attività logorante e che ha più speranze di vivere felice un filosofo nullatenente che un ricco tiranno. Magari, mentre si perdeva in tali riflessioni, la sua mente immaginava il vecchio, felice, cinico Diogene che possedeva solo una logora tunica, un bastone su cui appoggiarsi ed una ciotola di legno per bere dalla fonte, della quale si privò infine quando vide un bimbo bere utilizzando solo il palmo della mano. Probabilmente prese in considerazione il fatto che il filosofo, non avendo nulla da offrire, può fidarsi degli amici i quali, a loro volta, non possono aver nulla da pretendere; diversamente dal tiranno che, se anche avesse degli amici, vivrebbe comunque nel dubbio di trovarsi tra adulatori. Quest’ultima riflessione emerge in tutta la sua amarezza da una delle risposte fornite dal tiranno alle domande postegli dai cittadini nell’esilio di Corinto, per provocarlo o prendersi beffa di lui. Egli dice, infatti, che se avesse avuto veri amici non sarebbe stato da loro mal consigliato, come invece avevano fatto gli adulatori di corte. Avrà certamente pensato di recuperare, durante l’esilio volontario, l’ultimo scorcio della sua vita, riappropriandosi della medesima e, per poterlo fare, bisognava essere libero, libero anche dalle ricchezze. Noi crediamo che quella del giovane Dionigi fu una volontaria, sofferta e, infine, perfino liberatoria scelta dell’esilio e della povertà.

Di certo qualcuno che con la tirannide prosperava, dovette ricordargli, al fine di convincerlo a rimanere a Siracusa, che suo padre cinquant’anni prima si era trovato nelle stesse ambasce. Suo padre aveva perfino meditato il suicidio poiché non trovava vie di fuga dall’assedio cui era stato sottoposto dai cavalieri aristocratici dell’opposizione politica. Lo avrebbe fatto se il suo amico Filisto non gli avesse ricordato che un tiranno abbandona la causa solo se trascinato per i piedi. Il giovane Dionigi non era nelle stesse condizioni disperate del padre; si trovava anzi in una roccaforte inespugnabile e con un numero di uomini tale da poter contrastare efficacemente Iceta. L’umore del tiranno era alto tanto che, dopo aver appreso della sconfitta di Iceta e dei suoi cinque mila uomini, alle porte della città di Adrano, per opera di Timoleonte e dei suoi mille e duecento uomini, riuscì a trovare per il suo disprezzato nemico parole ironiche e di scherno. È chiaro che Dionigi, in quella fase, era vacillante non tanto sotto il profilo militare quanto piuttosto nello spirito: a questo, e solo a questo, cedette. I suoi familiari erano stati barbaramente massacrati poco prima ed egli di certo non poté non attribuirne la causa all’odio che la tirannide attira.

Che l’iniziale naturale inclinazione del giovane alla filosofia divenne in seguito un coerente stile di vita, lo si può dedurre da una sua risposta ad una domanda postagli a Corinto durante l’esilio. Gli si chiede infatti quale vantaggio pensa di avere tratto dai filosofi: “Se non avessi avuto vantaggio dagli insegnamenti di Platone, pensi che avrei potuto sopportare così facilmente un tale cambio di fortuna?”. Risponde non più il tiranno ma il filosofo.

       Francesco Branchina