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MICENE- Μῠκῆναι

La maledizione degli Atrei
La cittadella
La Cittadella

“Le mie forme
- della moglie di questo ucciso -
velano l'antico accanito spirito
punitore di Atreo, che offrì
quella mensa agghiacciante.
Lui ha punito quest'uomo,
sacrificio di matura vittima
a compenso dei piccoli.”

Eschilo - ‘Agamennone’

Micene, terra dove il mito si confonde con la storia, terra di atroci delitti e feroci vendette familiari, terra intrisa di tragedie e dolori che ancora oggi, a distanza di millenni, aleggiano gravi tra i resti di ciò che rimane dell’antico splendore e le montagne che avvolgono la sua rocca. È impossibile arrivare a Micene, magari al tramonto, salire verso la Porta dei Leoni, e non vedere la regale figura di Agamennone a cavallo, che la oltrepassa col cuore in festa al rientro in patria dopo aver saccheggiato Troia, ignaro del crudele destino che lo attende una volta entrato nella sua reggia e incurante degli avvertimenti di Cassandra. È impossibile, aggirandosi tra le antiche mura della sua reggia, non vederlo poi soccombere dopo essere caduto nella rete mortale tesa dalla moglie Clitennestra e dal nipote Egisto. È impossibile, vedendo la tomba degli Atrei, non immaginare Elettra che, impotente di fronte alla morte del padre, grida vendetta contro la madre e gioisce all’arrivo del fratello perduto, Oreste, il quale per volere degli dei mette in atto la vendetta da lei così fortemente cercata, e uccide la madre per poi essere a sua volta perseguitato dalle divinità, fino all’intervento di Atena nel giudizio che si tenne sul sacro colle dell’Aeropago e che pose fine alla maledizione che perseguitava la sua stirpe. È questo ciò che, ancora oggi, a distanza di millenni, si sente a Micene nell’aria e che trasuda da ogni sua pietra; è questo ciò che ancora oggi soffia nel vento sferzante che ci avvolge quando si sale verso la cima della roccaforte: tutta la tragedia delle violenze e delle sofferenze di cui è impregnata la casata degli Atrei, una stirpe maledetta dagli dei. (Per il seguito di questo breve riassunto della mitologia di Micene e il video completo recitato dall’attrice Leda Conti, clicca su questo link).

Tavoletta con scrittura Lineare B
Tavoletta con scrittura Lineare B

Ma non fu uno della stirpe di Atreo a fondare Micene. Molto prima di loro un altro eroe, il mitico Perseo, dopo aver accidentalmente ucciso il nonno Acrisio, scambiò il suo regno, quello di Argo, con il regno di Tirinto del cugino Metapente, e mentre passeggiava tra le sue terre, il puntale (in greco μύκης) della sua spada si staccò e si infilò nella terra; Perseo ne dedusse che fosse un segno divino e su quelle terre fondò Micene. Ma sulla fondazione di Micene circolavano diverse altre storie, una di queste Pausània la racconta così: “Perseo, assetato, ebbe l’idea di cogliere un fungo (μύκης) dalla terra: ne scorse dell’acqua, che egli bevve di gusto, ragion per cui impose alla località il nome di Micene.” (Pausània, Periegèsi, libro 2, cap.16, par.3). Lo stesso Pausània però ci indica altre due possibilità sul perché a Micene venne imposto quel nome: la prima si richiama all’Odissea e alla strofa (2, 120) in cui Omero scrive: «Tiro e Alcmena e Micene dalla bella corona». La fanciulla di nome Micene, a dire di Pausània, è citata nelle Grandi Eee (fr. 246 M.W.) come figlia di Ìnaco e moglie di Arestore; a lei, dunque, secondo questa versione, si dovrebbe il nome della città. L’altra possibilità, ritenuta poco probabile da Pausània, riguarda un racconto attribuito ad Acusilao (F. Gr. Hist. 2 F 24), secondo cui il nome della mitica città deriverebbe da Miceneo, figlio di Spartone di Foroneo (Pausània, Periegèsi, II, 16, 4). Ma ripartiamo dalla versione più accreditata, ovvero da quella che attribuisce la fondazione di Micene all’eroe Perseo. Alla sua morte il regno di Micene passò al figlio suo e di Andromeda, Stenelo, il quale sposò una figlia di Pelope da cui ebbe Euristeo. Alla morte di Stenelo, Euristeo lo succedette al trono, ma ciò solo per un’abile inganno di Era a Zeus e a spese di Eracle, a cui Zeus voleva realmente donare il regno di Micene. Le cose andarono pressappoco così: Zeus, ingannandola, giacque con Alcmena, moglie di Anfitrione, in un amplesso lungo tre giorni e tre notti; da tale fatica non poteva che nascere un eroe, il più grande degli eroi: Eracle! Ma il padre degli dei ne fu talmente orgoglioso da riunire le divinità dell’Olimpo e annunciare loro che un suo discendente stava per nascere in quello stesso giorno e che il nascituro avrebbe governato su Micene e Argo (spesso scambiate nei poemi omerici); questo fece promettere a Zeus l’astuta e gelosa consorte Era, la quale, subito dopo aver strappato tale promessa al padre degli dei, si affrettò a trattenere la dea del parto, Ilizia, ritardando così la nascita di Eracle e affrettando, contemporaneamente, la nascita di Euristeo che, infatti, nacque al settimo mese. Euristeo era anch’egli discendente di Zeus in quanto suo nonno Perseo era figlio di Danae e Zeus, quindi, fatto ciò, Era andò dal consorte e disse, con ironica soddisfazione:
” ‘Zeus padre, candida folgore, ti metterò una parola in cuore:
è già nato l’uomo nobile che regnerà sugli Argivi,
Euristeo, figlio di Stènelo Perside,
tua stirpe: e non è indegno di regnare sugli Argivi’
Disse così, pena acuta colpì Zeus nel petto profondo …”
(Omero, Iliade, 19, vv.121-125).

panoramica della cittadella
Panoramica

I destini di Euristeo e Eracle continuarono ad incrociarsi tragicamente; il primo temeva la vendetta del più grande degli eroi, così, quando Eracle, per espiare la pena di aver ucciso la moglie Megara e i figli da lei avuti, finì al servizio proprio di Euristeo, questi gli ordinò di compiere le pericolose imprese divenute famose come “le dodici fatiche di Eracle“, sperando che l’eroe soccombesse prima di riuscire a portarle a termine; ma non andò così. Eracle portò a compimento tutte le dodici fatiche e quando morì fu accolto sull’Olimpo come un dio. La morte di Eracle, tuttavia, non affievolì la paura di Euristeo, il quale cercò in ogni modo di uccidere i figli dell’eroe inseguendoli prima a Trachis, dal re Ceice, e poi fino ad Atene, dove questi si erano rifugiati fuggendo da Trachis al fine di impedire una guerra. Euristeo chiese agli ateniesi di consegnargli i discendenti di Eracle, ma essi si rifiutarono. Apollodoro (2, 8, 1) ci narra come ebbe fine la dinastia dei Perseidi su Micene: “Gli Ateniesi non li consegnarono a Euristeo, e fecero guerra contro di lui, durante la quale i suoi figli Alessandro, Ifimedonte, Euribio, Mentore e Perimedo - restarono uccisi. Euristeo fuggì sul carro, Illo lo inseguì, lo raggiunse presso le rocce Scironie e lo uccise. Poi gli mozzò la testa e la portò a Alcmena: e lei gli cavò gli occhi con uno spillone.”

Porta dei Leoni
Porta dei Leoni

Con la fine della dinastia dei Perseidi, inizia il periodo in cui Micene conosce lo splendore tramandatoci da Omero, ma anche la tragedia di cui ancora oggi trasudano le sue mura, le sue montagne e la fresca brezza che spira sempre su di esse. L’origine di tutto ciò fu la morte di Euristeo. Infatti, secondo Tucidide (I 9), prima che egli partisse alla caccia degli Eraclidi, nominò Atreo quale reggente in sua assenza, e il Pelopide, pertanto, alla sua morte si ritrovò ad essere il re. Apollodoro (II, 4 e Epitome II 11), tuttavia, narra una versione della storia più vicina al mito: secondo lui fu un oracolo a stabilire che a regnare su Micene fosse qualcuno della stirpe di Pelope, sul quale, ricordiamo, gravavano ben tre maledizioni: quella degli dei, in quanto figlio di Tantalo che li aveva sfidati dando loro in pasto proprio il figlio Pelope certo di ingannarli, e quella del suocero Enomeo e dell’auriga Mirtilo, (figlio del dio Hermes) entrambi uccisi con l’inganno da Pelope al fine di sposare Ippodamia. Ma Pelope aveva tre figli e l’oracolo si guardò bene dal dire chi avrebbe dovuto regnare su Micene tra Atreo, Tieste e Crisippo, quest’ultimo figlio illegittimo avuto dalla ninfa Assioche o Astioche, una delle Danaidi. Crisippo morì tragicamente e sulla sua morte le versioni sono diverse. Il mito dice che Laio, esiliato da Tebe, trovò ospitalità presso Pelope, dove fu istruttore del giovane Crisippo di cui, poi, si innamorò, quindi lo rapì portandolo con se a Tebe una volta scontato l’esilio. È a questo punto che le versioni, come spesso accade nel mito, diventano varie. Secondo la più benevola verso i Pelopidi, Crisippo per la vergogna si suicidò; ma la versione più plausibile ci arriva da Igino (Fabulae 85), il quale la racconta così: “Durante i giochi Nemei, Laio, figlio di Labdaco, sedotto dalla sua bellezza, rapì Crisippo che era figlio illegittimo di Pelope, il quale lo riebbe indietro con la guerra. Crisippo fu poi ucciso da Atreo e Tieste aizzati dalla loro madre Ippodamia. Quando Pelope accusò Ippodamia, ella si suicidò.”.

tomba di Agamennone.
tomba di Agamennone

Plutarco (Storie parallele dei Greci e dei Romani, 33, 313 E), a sua volta, ci racconta ancora un’altra storia, citando come fonte Dositeo, Storie dei Pelopidi; secondo il biografo greco, Atreo e Tieste non si fecero convincere dalla loro madre, Ippodamia, ad uccidere il fratellastro, per cui la donna dovette provvedere personalmente, e lo fece rubando la spada a Laio e uccidendo Crisippo con quell’arma in modo da far credere che Laio fosse l’assassino. Ma Crisippo prima di morire fece in tempo a svelare la verità e Pelope mise al bando Ippodamia. In qualsiasi modo siano andate le cose, il regno di Micene alla fine fu conteso tra i due fratelli Atreo e Tieste. Nella discussione, che si tenne nella Sala del Concilio, Atreo rivendicò il trono in qualità di primogenito e affermando di possedere un vello d’oro. Questo manto era veramente in suo possesso, in quanto un agnello dal vello d’oro fu messo nel suo gregge dal dio Hermes, il quale, sapendo che il possesso del manto avrebbe generato una feroce contesa tra i fratelli, intendeva così vendicarsi sui Pelopidi per la morte del figlio Mìrtilo, ucciso da Pelope, come abbiamo accennato sopra. Quando Tieste propose che a regnare fosse il possessore del vello d’oro, Atreo accettò certo di possederlo, ma ignorava che a sua insaputa la moglie Erope (o Aerope), invaghitasi di Tieste, aveva sottratto il prezioso manto al marito per consegnarlo segretamente al cognato il quale, pertanto, salì sul trono Miceneo (Apollodoro Epitome II, 11 – Euripide Elettra 706 e segg.). Ma Zeus aveva una preferenza per Atreo e volle che fosse lui a regnare su Micene, quindi inviò Hermes, il dio messaggero, a riferire ad Atreo di sfidare nuovamente Tieste dicendogli che se il sole avesse mutato il suo cammino, avrebbe dovuto rendergli il regno. Tieste, certo dell’impossibilità che il Sole cambiasse direzione, accettò la sfida lanciata dal fratello. Zeus, allora, compì il prodigio: disse a Helios di mutare il suo cammino e tornare indietro col suo carro mentre era a metà del percorso e nel cielo tutti poterono vedere un prodigio che mai più si sarebbe rivisto, il Sole che tramontava a oriente. Questo convinse i micenei e riportò sul trono Atreo (Apollodoro Epitome II, 12 – Euripide Oreste 1001 e Elettra 726-736 – Ovidio Ars Amatoria 327 e segg.) mentre Tieste, il cui regno durò solo un giorno, fu bandito dalla città. Atreo però, il cui nome ha un’etimologia per nulla pacifica (ἀτιθάσ(σ)ευτος ‘indomabile’, ἄτρεστος ‘intrepido’ o ἀτηρός ‘accecato dal male’) come ci svela Platone (Cratilo, 395 bc), scoperto il tradimento della moglie con il fratello, meditò vendetta. Sulla moglie di Atreo, Erope (“volto di nebbia”, ma alcuni la chiamarono Aerope o Europa), c’è da aprire una parentesi per dire che era nipote di Minosse e figlia del re cretese Catreo, il quale la sorprese con un amante nel palazzo e intendeva giustiziarla ma, su preghiera di Nauplio, la vendette a questi come schiava insieme alla sorella Climene, che Catreo sospettava volesse ucciderlo, a patto che le due sorelle non tornassero mai più a Creta. Nauplio sposò Climene, mentre Atreo, morta la prima moglie Cleola e il figlio da lei avuto, Plistene, ucciso per errore dai sicari inviati dal suo stesso padre che intendeva far uccidere il suo omonimo Plistene secondo, figlio del tradimento di Erope con Tieste (secondo alcuni questa fu la vendetta di Artemide per il mancato rispetto del voto di Atreo), sposò Erope, da cui ebbe tre figli: Agamennone, Menelao e Anassibia (Igino Fabula 86 e 97 – Apollodoro III, 2, 2 e Epìtome II, 10-13 – Sofocle Aiace 1295 e segg. – Euripide Elena 392 – Omero Iliade II 101-108).

Circolo funerario A
Circolo funerario A

Tieste si rifugiò dal re Tesproto, a Sicione, dove viveva anche sua figlia Pelopia o Pelopea, ma bramoso di vendetta nei confronti del fratello, si recò a Delfi per consultare l’oracolo, il quale diede un vaticinio orribile: Tieste avrebbe avuto la sua vendetta solo per mano di un figlio generato da un incestuoso rapporto tra lui e la figlia Pelopia. Avuto tale responso, Tieste tornò a Sicione e una notte, durante una festa in onore di Atena, si nascose in una grotta nei pressi di uno stagno e quando la figlia Pelopia si recò presso lo specchio d’acqua per ripulire la sua veste sporca del sangue dell’animale sacrificato, la violentò. Pelopia non riconobbe il padre, che aveva avuto l’accuratezza di coprirsi il volto, ma nel tentativo di difendersi dalla violenza, riuscì a sfilargli la spada dal fodero e la ripose sotto il piedistallo della statua di Atena. Tieste, temendo di essere scoperto a causa della spada rubata, scappò e si rifugiò in Lidia, terra di origine dei suoi padri. Nel frattempo anche Atreo si rivolse all’oracolo di Delfi e il responso fu che avrebbe dovuto richiamare il fratello dall’esilio, pertanto si recò a Sicione, ma Tieste era già scappato via. Lì però, incontrò Pelopia, che credeva essere la figlia del re Tesproto, e se ne innamorò; essendo rimasto vedovo, dopo aver giustiziato la moglie Erope per il tradimento con Tieste, chiese al re di sposarla e questi, felice di stringere alleanza con un re così potente, si guardò bene dal dire la verità e gliene concesse la mano. Pelopia, dal canto suo, quando diede alla luce il figlio della violenza, lo abbandonò su una montagna, dove fu raccolto da allevatori di capre che lo fecero allattare da una capra, da cui il nome Egisto, ovvero “che ebbe forza da una capra”. Atreo, credendo che fosse figlio suo e che Pelopia lo avesse abbandonato a causa di una pazzia post-parto, lo riportò al suo palazzo crescendolo come suo erede. Nel frattempo però, Atreo continuava a temere la vendetta di Tieste, quindi inviò nuovamente a Delfi i suoi figli, Agamennone e Menelao, a chiedere notizie del fratello; i due ebbero la fortuna di incontrarlo lungo la strada, quindi lo catturarono e lo riportarono a Micene dove Atreo lo chiuse in carcere e diede ordine a Egisto di ucciderlo. Egisto entrò nella cella dov’era rinchiuso il suo vero padre, e cercò di ucciderlo con la spada che la madre, Pelopia, aveva sottratto a Tieste durante la violenza in cui fu concepito, ma il padre e nonno scansò il colpo e disarmò il ragazzo, quindi gli chiese dove aveva preso quella spada e Egisto rispose che gli era stata data dalla madre, Pelopia; a ciò Tieste non rivelò ad Egisto di essere suo padre, ma disse che non lo avrebbe ucciso se avesse eseguito tre suoi ordini; il ragazzo accettò e il primo ordine fu di far venire la madre Pelopia presso la sua cella; quando la donna arrivò le chiese dove avesse preso la spada e avuta conferma che era proprio quella strappatagli durante lo stupro, le rivelò la verità; a ciò Pelopia, distrutta dal dolore provocato da tanto orrore, si uccise conficcandosi la stessa spada nel petto. All’attonito Egisto, Tieste ordinò di andare da Atreo con la spada ancora insanguinata, e riferirgli di aver compiuto l’omicidio commissionatogli, quindi di tornare da lui. Egisto fece quanto richiesto da Tieste che, al suo ritorno, gli rivelò di essere il suo vero padre e gli diede l’ultimo ordine: ”uccidi Atreo!”. Egisto raggiunse Atreo il quale, nel frattempo, convinto di essersi sbarazzato del fratello, era sceso dalla roccaforte di Micene per recarsi al mare a rendere sacrifici agli dei, e lì lo uccise. Tieste, finalmente, era nuovamente sul trono di Micene insieme al figlio Egisto! Igino, Fabulae – Apollodoro, Epìtome). Alcuni sostengono che Egisto non potesse essere l’uccisore di Atreo, dato che era ancora un bambino quando questi fu ucciso, ma il mito, lo sappiamo, sfugge alle regole temporali. Si narra, inoltre, che da allora comparve un agnello d’oro nel gregge di Tieste e di ogni nuovo re della stirpe dei Pelopidi, e che in tal modo venisse confermata la loro sovranità su Micene, ma secondo altri l’agnello d’oro era inciso sul fondo di una coppa d’argento (Seneca, Tieste 224 e segg. – Cicerone, De natura deorum III 26 e 68 – Eschilo, Agamennone 1603 e segg.). Atreo fu sepolto, secondo la tradizione, nella monumentale tomba a tholos denominata ‘Tomba degli Atrei’ che ancora oggi si può visitare a Micene, mentre Tieste ha la sua tomba sulla strada tra Argos e Micene, ed è curiosamente sormontata da un agnello di pietra (Pausania 2, 16, 6 e 2,18,1).

Palazzo
Palazzo

Secondo alcune fonti, Agamennone e Menelao erano ancora in fasce quando Egisto uccise Atreo, e furono salvati dalla nutrice che li portò a Sicione dal re Polifide il quale, a sua volta, li affidò a Eneo. Ciò che è certo, è che in seguito trovarono rifugio a Sparta dal re Tindaro, il quale li aiutò a riconquistare il regno di Micene marciando contro Tieste e costringendolo a restituire il trono ad Agamennone e a fuggire a Citera, mentre Egisto trovò rifugio presso il re Cilarabete, figlio dell’argivo Stenelo (Igino, Fabula 88 – Eusebio, Cronaca I 175-76 – Omero, Iliade II 107-08 e Odissea III 263 – Eschilo, Agamennone 529 – Pausania II 18 4 – Tzetze, Chiliadi I 433 e segg.). Riconquistato il trono di Micene, Agamennone sposò la figlia di Tindaro, Clitennestra, ma solo dopo averle ucciso il figlio e il marito, un certo Tantalo, re di Pisa e, secondo alcune fonti, figlio di Tieste (Pausania 2, 18, 2 – Apollodoro, Epitome 2, 16) mentre per altre fonti era figlio di Brotea (Euripide, Ifigenia in Aulide 1149-56 – Apollodoro III 10 6 e Epitome II 16). A seguito di questo efferato delitto, Agamennone fu perseguitato dai temibili Dioscuri, fratelli di Elena e Clitennestra, quindi supplicò Tindaro e ottenne il suo perdono e la mano della figlia che, tuttavia, non gli perdonò questa ed altre violenze, e anzi, come vedremo in seguito, coverà per anni il suo odio fino a farlo esplodere in una tremenda vendetta. Alla morte dei Dioscuri, Menelao sposò la bella Elena, loro sorella, e Tindaro abdicò in suo favore facendolo diventare re di Sparta (Euripide, Ifigenia in Aulide 1149-56 – Apollodoro III 10 6 e Epìtome II 16). Agamennone ebbe da Clitennestra un figlio, Oreste, e tre figlie, Elettra (da alcuni chiamata anche Laodice), Crisotemi e Ifigènia (o anche Ifianassa), che alcune fonti indicano come figlia di Elena e Teseo, adottata per pietà da Clitennestra (Apollodoro III 10 6 – Omero, Iliade IX 145). Quando Paride rapì Elena, Egisto, sebbene sconsigliato addirittura da Hermes, rimase ad Argo in cerca del momento buono per vendicarsi di Agamennone. Hermes gli ricordò che il re dei re aveva un figlio, Oreste, il quale avrebbe a sua volta cercato di vendicarsi, ma Egisto non ascoltò il dio (Omero, Odissea III 263). Nel frattempo Agamennone era bloccato da molti giorni con la sua flotta in Aulide, dove forti venti contrari ne impedivano la partenza per Troia. L’indovino Calcante predisse che non sarebbero mai partiti se prima non avessero sacrificato la più bella delle figlie di Agamennone, Ifigènia, alla dea Artemide, irritata col re dei re sia per la vicenda del vello d’oro di cui abbiamo narrato sopra, sia perché pare che Agamennone, durante una battuta di caccia, avesse ucciso un cervo, animale sacro alla dea, e si fosse per giunta vantato di averlo abbattuto con un tiro di cui neanche la stessa Artemide sarebbe stata capace. Altre fonti sostengono che la dea fosse irritata col re perché questi aveva ucciso una capra a lei sacra o perché fece voto di sacrificarle la più bella nata quell’anno, che fu proprio sua figlia Ifigènia. Quale che fosse il motivo dell’ira della dea, Agamennone inizialmente rifiutò di sacrificare la vita di sua figlia, adducendo quale scusa anche l’ira della moglie Clitennestra ad una simile soluzione. Tuttavia, di fronte alle minacce di tutti gli altri re di ritirarsi dalla spedizione vista l’impossibilità di partire, e soprattutto quando Odisseo, con la sua proverbiale astuzia, fece finta di salpare irritato, Menelao propose di far condurre Ifigènia in Aulide da Odisseo e Taltibio con la scusa di darla in sposa ad Achille quale premio per le sue imprese in Misia. Agamennone acconsentì, ma segretamente inviò un messaggio alla moglie dicendole di non credere alle parole del furbo Odisseo, ma il messaggero fu intercettato da Menelao e non giunse mai a destinazione, per cui Ifigènia, con questo inganno, fu condotta in Aulide e sacrificata ad Artemide; la dea però, secondo alcune fonti, all’ultimo istante la salvò sostituendo a lei una cerbiatta, un’orsa o un’anziana donna, e portandola in Tauride dove ne fece una sua sacerdotessa. Altre fonti dicono che fu lo stesso Achille a salvare Ifigènia e inviarla in Scizia o anche che la sposò e da lei, e non da Deidamia, ebbe Neottolemo (Euripide, Ifigènia in Aulide; Sofocle, Elettra 574; Apollodoro, III 21, 22; Ditti Cretese, I 19). Il sacrificio di Ifigènia, comunque, placò l’ira di Artemide, e la flotta di Agamennone ebbe finalmente il vento favorevole per partire alla volta di Troia, ma Clitennestra tornò a Micene con un odio ancora più profondo verso il marito e destinato ancora a crescere; al suo ritorno ebbe quindi gioco facile Egisto non solo nel divenire suo amante, ma soprattutto nel trovare in lei una complice nell’ordire e finalizzare la vendetta nei confronti di Agamennone, il giorno in cui questi fosse tornato da Troia. Agamennone, prima di partire, aveva affidato la custodia della moglie ad un aedo il quale tenne a freno inizialmente Clitennestra, ma quando Egisto scoprì che era l’uomo che bloccava i suoi piani, lo confinò senza viveri su un’isola deserta dove il vecchio cantore morì, quindi, una volta conquistato l’amore della regina, offrì sacrifici ad Afrodite e Artemide (Omero, Odissea I 35 e sgg. e III 263-75). Egisto e Clitennestra regnarono su Micene fino al ritorno di Agamennone; il loro odio nei confronti del re dei re andava aumentando giorno dopo giorno, alimentato anche da Nauplio e dal figlio superstite Eace, che intendevano vendicarsi della morte di Palamede, figlio di Nauplio, condannato a morte per lapidazione a Troia dopo un ingiusto processo per una vendetta ordita da Ulisse con la complicità di Agamennone (vedi articolo ‘Le bugie di Ulisse’), e diffondevano la notizia che Agamennone sarebbe rientrato con una concubina, Cassandra, e i due figli gemelli da lei avuti, Teledamo e Pelope, istigando così sempre di più la regina alla vendetta, sebbene sembri che Agamennone non avesse intenzione di ripudiarla (Euripide, Ifigenia in Aulide 1148 e sgg; Sofocle, Elettra 531; Pausania III 19 5 e II 16 5; Igino, Fabula 117).

Edificio Gamma
Edificio Gamma

Un giorno la regina fu informata che il re stava tornando (Eschilo, Agamennone vv.264-269). Agamennone, dopo aver affrontato varie peripezie durante il viaggio di ritorno da Troia, infine approdò a Nauplia; ignaro della triste sorte che lo attendeva e felicissimo di rivedere la sua amata terra, appena sbarcato pianse e ne baciò il suolo, poi lasciò la baia di Nauplia con il suo seguito per dirigersi verso casa, a Micene ! (Omero, Odissea IV – 524-37) Nel frattempo Egisto, informato dell’arrivo del re da un suo uomo che aveva preventivamente messo di guardia dietro compenso di due talenti, appena avuta la notizia radunò venti dei suoi migliori uomini e li fece nascondere nel palazzo reale, pronti per mettere in atto il mortale agguato. Giunto a Micene, Agamennone fu accolto da Clitennestra con tutti gli onori, addirittura srotolandogli un tappeto di porpora davanti ai piedi, quindi, una volta dentro il palazzo reale, lo accompagnò nella vasca da bagno dove il re intendeva lavarsi e rilassarsi per riprendersi dal lungo e avventuroso viaggio. Ultimato il bagno però, una terribile sorpresa lo attese: la regina, invece di porgli un telo per asciugarsi, lo avvolse in una rete da lei stessa intessuta, in cui Agamennone restò imprigionato e impossibilitato a muoversi, proprio come un pesce; fu allora che Egisto uscì da dove si era nascosto e lo uccise con una spada a doppio taglio, mentre Clitennestra gli diede il colpo di grazia tagliandogli la testa con una scure, poi, senza neanche chiudergli gli occhi e la bocca ma, anzi, pulendosi le mani imbrattate di sangue tra i capelli del defunto marito, uscì dalla stanza e si portò sull’uscio del palazzo, dove con la stessa arma uccise Cassandra che, da profetessa qual era, si rifiutò di entrare nel palazzo avendo fiutato l’odore di morte che lo impregnava e di cui aveva avvertito anche Agamennone; ma, com’era nel suo triste destino, restò inascoltata e pagò con la vita colpe non sue (Eschilo, Agamennone vv.1220-1391 e segg.; vv.1521 e segg.; Eumenidi vv.631-35 – Euripide, Elettra vv.157 e Oreste vv.26 – Omero, Odissea III 193 e segg. e 303-05; XI 529-37 – Sofocle, Elettra 99 – Eschilo, Agamennone 1372 e segg. E 1535 – Eschilo, Agamennone loc.cit. – Sofocle, Elettra 445-46). La coppia di amanti rimase saldamente sul trono di Micene per sette anni, ma su loro aleggiava l’ombra della vendetta di Oreste, come tempo addietro era stato predetto da Hermes a Egisto. Oreste, secondo Eschilo (Agamennone vv.877 e segg.), fu mandato dalla stessa madre in Focide dal re di Crisia, Strofio, il quale aveva sposato una sorella di Agamennone con cui aveva generato Pilade, cugino coetaneo di Oreste; Euripide nell’Elettra (vv.14 e segg.) ci dice che a inviarlo in Focide fu il vecchio tutore di Agamennone, mentre Apollodoro (Epitome VI 24) e Igino (Miti 117) sostengono che ad affidarlo a Strofio fu la sorella Elettra subito dopo l’omicidio del padre, per evitare che fosse ucciso anche lui dalla coppia di amanti; Pindaro, invece, nelle Pitiche (XI 17) dice che a salvare Oreste fu la sua nutrice, Arsinoe (o Laodamia o anche Gilissa) che mise nel letto il figlio suo al posto del principe, lasciando che Egisto lo uccidesse credendolo Oreste. Egisto intendeva uccidere anche Elettra, temendo che partorisse un discendente di Agamennone di sangue nobile che potesse vendicarsi, ma Clitennestra, che dominava su Micene molto più di Egisto, non glielo consentì, pertanto Egisto la diede in moglie ad un contadino, in modo che non potesse generare figli nobili. Lo sposo, benché felice del matrimonio, non osò neanche sfiorare Elettra, temendo la vendetta di Oreste. Quest’ultimo, una volta adulto, si recò a Delfi per consultare il famoso oracolo in merito alla vendetta che covava in lui come nella sorella Elettra, il responso fu il seguente, come ci ricorda Eschilo nelle Eumenidi: “Zeus, come appunto vuoi dire, affidò questo responso a te (Apollo), perché ordinassi ad Oreste qui presente di vendicare il padre ucciso senza tenere in alcun conto la madre sua.” (vv.622-624). Avuto l’ordine divino, Oreste si recò a Micene dove, come ci narra Eschilo nelle Coefore, si portò presso la tomba del padre per lasciarvi una ciocca di capelli ma, subito dopo, si nascose in quanto vide arrivare un gruppo di schiave inviate da Clitennestra a versare libagioni sulla stessa tomba, questo perché la notte prima la regina aveva sognato di dare alla luce e allattare un serpente il quale le succhiava sangue dal seno; gli indovini avevano interpretato il sogno come l’ira del defunto marito, consigliandole di versare libagioni sulla tomba allo scopo di placare l’ombra del defunto. Tra le schiave vi era anche Elettra, la quale versò libagioni, ma non per conto della madre, e invocò Ermete e la Madre Terra affinché vendicassero il padre, quindi notò la ciocca di capelli biondi e capì che solo Oreste avrebbe potuto fare una simile offerta; poi notò anche un’impronta sul terreno e mentre si accendeva sempre più in lei la speranza di ritrovare il fratello, Oreste uscì dal suo nascondiglio e le provò, mostrandole anche il mantello con cui era stato avvolto quando fuggì da Micene, che era proprio lui. Al sentimento di gioia che Oreste e Elettra provarono nel ritrovarsi, subentrò poi quello della vendetta, che entrambi covavano da anni. Oreste disse a Elettra di rientrare alla reggia senza dire nulla di quanto accaduto, aggiungendo che lui sarebbe giunto più tardi col fedele Pilade. Infatti, poco dopo l’arrivo di Elettra nel palazzo reale, Oreste e Pilade bussarono alla reggia dicendo di giungere da Strofio con brutte notizie inerenti Oreste. Clitennestra non riconobbe il figlio e subito fece entrare i due giovani. Oreste, una volta davanti alla madre, le raccontò questa storia: “Sono straniero. Vengo da Daulide, in Focide. Camminavo sulla strada di Argo, carico di questa mia roba - ecco, come adesso mi vedi far tappa - quando mi incrocia un uomo. Mai visto. Né lui mi conosce. Mi racconta del viaggio, s'informa qual è la mia strada. È Strofio, un focese - glielo sento dire, parlando - e a un tratto mi prega: «Amico, poiché ad Argo arrivi, riferisci ai genitori - fissatelo giusto in mente - che Oreste è morto, ormai; non dimenticarlo! Poi, sia che vinca nei suoi l'idea di riaverlo tra loro, o di dargli un sepolcro lontano, ospite nostro perenne tu mi consegni, passando, i loro voleri. Per ora, la sua polvere s'annida nel cavo di un'urna di bronzo: il lamento dei morti, su lui, s'è levato.» Come ho udito, io ti ripeto. Non so se mi trovo di fronte a qualcuno dei suoi, che mi assicuri la risposta da dare: mi aspetto che chi lo mise alla luce lo sappia.” (Eschilo – Coefore vv.675-690) Pilade, nel frattempo, tornò alla reggia con l’urna funeraria tra le mani e Clitennestra, appresa la notizia della morte del figlio, disse alla donna che fu la sua nutrice, di avvertire Egisto e farlo tornare al palazzo, ma la nutrice riconobbe Oreste e disse a Egisto di tornare subito alla reggia, ma da solo, disarmato e senza gli uomini della sua guardia. Giunto alla reggia Egisto venne facilmente sopraffatto da Oreste il quale, dopo averlo ucciso, sta per riservare lo stesso destino alla madre accorsa nel frattempo, dopo aver sentito le grida del consorte. Oreste ha Clitennestra davanti e sta per ucciderla, ma lei prova in ogni modo a convincerlo a desistere da tale proposito; prima gli ricorda di essere sua madre, di averlo messo al mondo e nutrito col suo seno, poi lo avverte che uccidendola provocherà le dee della vendetta, le temibili Erinni, che lo perseguiteranno per il resto della vita, quindi gli prospetta di lasciarla in vita e continuare a regnare su Micene insieme a lei. Oreste a questo punto ha dei dubbi, le preghiere e gli avvertimenti della madre sono riusciti a fare breccia nella sua decisione di ucciderla e, come sempre quando è in difficoltà, Oreste chiede aiuto a Pilade: “Pilade, che decisione prendere? Devo avere un trepido rispetto davanti all’uccisione della madre?” Ma Pilade gli ricorda della profezia di Apollo: “Dove andranno a finire nel futuro gli oracoli che a Pito dà il Lossia e la fede dovuta al giuramento? Tutti gli uomini nemici considera molto più che gli dei.” (Eschilo, Coefore vv.898/902). Sciolto ogni dubbio e certo di agire per volere degli dei, Oreste uccise la madre. Questo il racconto che ci fa Eschilo nelle Coefore; ma nel mito, lo sappiamo, le versioni raramente concordano e questa storia non fa eccezione. Euripide, infatti, nella sua Elettra racconta che il tutto si svolge ad Argo nel terzo giorno delle feste di Era, dove Egisto aveva preparato un banchetto per le Ninfe a cui aveva invitato anche Oreste e Pilade, che si erano presentati come stranieri. In precedenza i due cugini si erano già accordati sulle modalità della vendetta con Elettra, incontrata presso la tomba di Agamennone dove, anche in questo caso, Oreste si era fatto riconoscere dalla sorella, questa volta grazie ad una cicatrice sulla fronte. Durante il banchetto, mentre Egisto esamina attentamente le viscere del vitello ucciso, cogliendone i funesti segni divini e spiega il motivo dei suoi timori a Oreste, questi si alza in piedi e lo uccide colpendolo tra le vertebre, quindi svela a tutti la sua vera identità e si porta presso la capanna dove vive la sorella Elettra col marito contadino, la quale aveva attirato lì la madre dicendole di aver partorito da lui un figlio; una volta giunta lì, certa di trovare il neonato nipotino, Clitennestra viene uccisa da Oreste, che si era nascosto dietro l’uscio di casa. Nell’Elettra di Sofocle, invece, Clitennestra invia l’altra figlia, Crisotemi, a versare libagioni sulla tomba di Agamennone, avendo sognato che questi strappava lo scettro dalle mani di Egisto per poi piantarlo facendo germogliare un albero che copriva, con la sua ombra, tutta Micene. Crisotemi e Clitennestra cercano di convincere la vendicativa Elettra a sottomettersi alle volontà di Egisto, prospettandole un amaro futuro in caso diverso, ma lei non si piega. Giunge quindi Oreste, il quale, d’accordo col suo tutore, invia quest’ultimo alla reggia dove si fingerà un messaggero che porta la notizia della morte di Oreste, quindi inizia a narrare, tra la soddisfazione di Clitennestra e la disperazione dell’ignara Elettra, come questi sia morto durante una gara di cocchi ai Giochi Pitici. Elettra a questo punto medita di vendicarsi da sola, ma Oreste, per non lasciarla sola nella sua disperazione, le rivela chi è mostrandole il suggello di Agamennone e le dice di continuare a piangerlo in modo che la loro vendetta possa avere luogo, quindi si porta nel palazzo reale con Pilade, uccide la madre e attende l’arrivo di Egisto per completare la sua vendetta. All’arrivo di questi gli fa vedere il cadavere di Clitennestra coperto da un velo e, quando Egisto lo alza credendo fosse quello di Oreste e vede, invece, quello della moglie, capisce chi è veramente l’uomo che ha davanti, ma è troppo tardi ormai e Oreste completa la vendetta. Per una breve, ma speciale, ricostruzione dell’Elettra di Sofocle in foto e video, vi rimandiamo alla nostra pagina ‘Elettra’. Ma torniamo al nostro mito. Egisto e Clitennestra furono seppelliti dai micenei al di fuori delle mura della città (Pausania II 16 7), come ancora oggi si può vedere. Oreste, completata la sua vendetta, uccise anche Elena, sorellastra che la madre aveva concepito con Egisto, mentre Pilade cacciò via da Micene i figli di Nauplio, accorsi in aiuto di Egisto (Pausania I 22 6). Ma, come gli aveva predetto la madre, Oreste fu perseguitato dalle terribili Erinni, le dee della vendetta, le quali perseguitavano gli autori di delitti atroci. Dopo una settimana di tormento da cui poco lo salvò l’arco di corno datogli da Apollo per difendersi dalle terribili dee, Oreste rischiò di impazzire e si lasciò andare per sei giorni, avvolto in un mantello e rifiutando cibo e acqua, finché giunse a Micene Tindareo, padre di Clitennestra, il quale chiese un processo per Oreste, accusandolo di matricidio e chiedendo di isolare sia lui che la sorella Elettra, lasciandoli privi di acqua e cibo. Tindareo trovò un alleato in Eace, figlio di Nauplio, che sperava di vendicarsi di Agamennone, ma nel frattempo anche Menelao era rientrato da Troia e, informato di quanto era accaduto in sua assenza, disse alla moglie Elena di recarsi a Micene per avere conferma dei fatti, ma le consigliò di andare di notte per evitare l’ira di quanti la ritenevano responsabile della guerra di Troia. Elena, una volta a Micene, volle recarsi presso la tomba della sorella, Clitennestra, a deporre libagioni, ma aveva timore a farlo personalmente, per cui chiese a Elettra di farlo per lei, ma la figlia di Agamennone si rifiutò e disse ad Elena di inviare sua figlia Ermione, che aveva lasciato in custodia proprio alla sorella Clitennestra, prima di fuggire per Troia con Paride. La ragazza riconobbe la madre e fece quanto le era stato chiesto. Intanto anche Menelao era giunto al palazzo reale di Micene, dove Tindareo gli chiese di sostenerlo nell’accusa a Oreste, e il re di Sparta, temendo di offendere il padre adottivo e suocero, promise di farlo. Pilade, dopo il processo in cui i giudici, ascoltata la difesa di Oreste, commutarono la pena di morte in suicidio, disse a Oreste che Menelao doveva pagare per essersi schierato contro di lui e organizzò, con l’aiuto anche di Elettra, di uccidere Elena. Così, mentre Elettra tratteneva come ostaggio Ermione, ormai di ritorno dalla tomba di Clitennestra, Oreste e Pilade si portarono all’interno del palazzo dove trovarono Elena, ma nel momento in cui Oreste stava per ucciderla, Apollo, su ordine di Zeus, di cui Elena era figlia divina, la fece svanire in una nuvola che la portò sull’Olimpo, dove si unì ai suoi fratelli divini, i Dioscuri, diventando, con loro, l’immortale protettrice dei marinai. Nel frattempo Elettra, con Ermione in ostaggio, si era portata all’interno del palazzo e una violenta disputa sarebbe nata tra i contendenti se, ancora una volta, Apollo non fosse apparso loro dicendo qual era la volontà di Zeus: “Menelao, deponi il tuo affilato furore. Io Febo, figlio di Leto, sono qui e ti chiamo. E anche tu, Oreste, che con la spada in pugno tieni d'occhio questa fanciulla, devi conoscere il messaggio che vi porto. Nella tua ira contro Menelao tu desideravi tanto uccidere Elena e non ci sei riuscito [è qui, la vedete nel profondo dei cieli, è incolume, non è morta per mano tua]. Io l'ho salvata, l'ho sottratta alla tua spada per ordine di Zeus padre. Perché Elena è figlia di Zeus e perciò deve vivere in eterno. Nel profondo dei cieli siederà accanto a Castore e Polluce e proteggerà i naviganti. Prenditi e accogli nella tua dimora un'altra moglie: gli dèi si sono serviti della straordinaria bellezza di Elena per scatenare la guerra tra Greci e Frigi, e hanno causato tante morti per liberare la terra di una sterminata massa di scellerati. Questa è la sorte di Elena. Tu, invece, Oreste devi uscire dai confini di questa terra, abitare per un anno nella pianura di Parrasia. Essa prenderà nome dal tuo esilio: Azari e Arcadi la chiameranno Oresteion. Da là passerai nella città di Atene, risponderai del matricidio di fronte alle tre Eumenidi. Gli dei saranno i giudici del processo, sulla collina di Ares deporranno il loro santo voto: e tu verrai assolto. Tu ora tieni puntata la spada contro la gola di Ermione: ebbene Ermione è la consorte che ti ha assegnato il destino; Neottolemo che crede di sposarla, non la sposerà mai. Cadrà, per volere del Fato, sotto la spada dei Delfi mentre mi sta chiedendo conto della morte di suo padre Achille. Concedi a Pilade il talamo di tua sorella, che gli avevi promesso un tempo: vivrà felice per il resto della sua esistenza. Menelao, lascia che Oreste abbia il trono di Argo, vattene a regnare a Sparta, godendoti la dote di una donna che sino ad ora ti aveva procurato soltanto mali. Dirimerò io il contrasto tra Oreste e gli Argivi, perché l'ho costretto io a uccidere sua madre.” (Euripide, Oreste vv. 1625-1665)

Ingresso cisterna.
Ingresso cisterna.

Come vaticinato dal dio, le terribili Erinni ripresero a perseguitare Oreste; ovunque egli andasse, per mare e per terra, qualunque rito purificatore facesse, le dee lo tormentavano. Oreste si recò nuovamente a Delfi, dove chiese protezione ad Apollo, ma il suo tormento e le sue peregrinazioni, nonostante l’aiuto del dio pitico, durarono un anno, così come stabilito dal padre degli dei, Zeus. In questo anno Oreste si recò a Trezene, accompagnato da Ermete, ma gli abitanti non vollero ospitarlo nelle loro case e lo sistemarono in un edificio chiamato ‘Padiglione di Oreste’, dove lo aiutarono a purificarlo, almeno temporaneamente, con l’acqua della fonte Ippocrene (Pausania II 31 8 e 9); successivamente Oreste si portò nei pressi di Gizio, di fronte all’isola di Cranae, dove Pausania ci dice che si trovava una pietra su cui Oreste si sedette e guarì, sempre temporaneamente, dalla sua pazzia, perciò la pietra fu chiamata, con un vocabolo dorico, ‘Zeus Cappota’ o ‘Zeus Guaritore’ (Pausania III 22 1). Altre fonti dicono che Oreste fu purificato anche in Italia con le acque di sette fiumi presso Reggio, poi in Tracia con le acque di tre affluenti dell’Ebro, e in quelle dell’Oronte, nei pressi di Antiochia, (Varrone, citato dal commento di Probo a Virgilio, Egloga I 4; Lampridio, Vita di Elagabalo VII; Libanio XI 366), e che nel Peloponneso, tra Megalopoli e Messene, dove c’è un santuario delle dee Manie o Folli (altri appellativi con cui venivano chiamate le Erinni), si sia tagliato un dito per placare la follia da loro indotta, e sembra che sul luogo ci sia un tumulo con un dito di pietra scolpito sopra, chiamato ‘tomba del Dito’ o anche ‘monumento del Dito’ (Pausania VIII 34 1-4). Euripide aggiunge che Oreste sia stato nella pianura Parrasia che da allora sarà chiamata, dagli Azari e gli Arcadi che la abitavano, Oresteion (Euripide, Oreste 1645-47; Elettra 1254; Pausania VIII 3 1). Come da volere divino, al termine dell’anno Oreste si recò ad Atene dove, sul sacro colle dell’Areopago, alla presenza di Apollo e delle Erinni, Atena aveva riunito i più saggi tra i cittadini e giudici per giudicare Oreste; in sua difesa intervenne Apollo e la conclusione del giudizio Eschilo ce la narra così:
“Apollo: Contate, ospiti miei, esattamente i voti che fuor balzano, e curate con scrupolo di non fare ingiustizia, quando li dividete. Se manchi precauzione, grande sventura viene: quel solo voto che una casa abbatte può renderla di nuovo prospera.
Atena: Costui è stato assolto dall’accusa di assassinio: dei voti è uguale il numero.”
(Eschilo, Eumenidi vv.748-754)

Porta Nord.
Porta Nord.

Sulla votazione, che si concluse pari, pesò il voto di Atena, la quale, per non offendere le Erinni, offrì loro questa soluzione:
“Atena: Siate da me persuase: non reagite con troppo gravi lamenti. Voi vinte non siete state, ma con pari voti la sentenza balzò fuori conforme al vero, senza offesa ai privilegi vostri. Sì, fu così, perché fulgidi segni inviati da Zeus erano apparsi e garante era chi diede il responso, che Oreste non avrebbe avuto danni, pur se prendeva tale decisione. Voi contro questa terra non scagliate grave rancore, non nutrite collera, non diffondete torpore che i germogli arresti, dopo che scagliato avrete gocce di demoni che crudelmente, come se punte fossero, corroderanno i semi. A voi prometto seguendo il giusto che possederete un antro come sede in questa giusta terra, sedute sui seggi splendenti dell’are vostre e di onori cresciute dai cittadini di questo paese.” (Eschilo, Eumenidi vv.794-808). Da allora il loro nome mutò da Erinni a Eumenidi, ovvero le Benevoli. Ma a dire di Euripide, non tutte le Erinni accettarono il verdetto e quelle che non lo fecero continuarono a perseguitare Oreste, il quale, ormai stremato, tornò nuovamente a Delfi dove promise ad Apollo di suicidarsi se non lo avesse liberato dalla maledizione delle Erinni, come aveva profetizzato. Apollo questa volta vaticinò che per espiare definitivamente tutte le sue colpe, avrebbe dovuto portarsi in Tauride, l’odierna Crimea, trafugare ai barbari un simulacro caduto dal cielo e riportarlo ad Atene. Oreste, col fidato Pilade, s’imbarcò su una nave e giunse in Tauride dove, però, vennero catturati dai barbari che li condannarono a morte; tale condanna veniva eseguita dalla loro sacerdotessa la quale non era altri che Ifigenia, salvata da Artemide in Aulide e diventata sua sacerdotessa in Tauride, come abbiamo narrato in precedenza. Quando Ifigenia venne a conoscenza del fatto che i prigionieri erano greci, pensò di aiutarli a fuggire e dare loro un messaggio da recapitare in Grecia per far sapere che era viva; ma proprio a causa di questo messaggio, i tre scoprirono le rispettive identità e decisero di usare uno stratagemma per fuggire tutti e tre insieme e portare con loro il simulacro di Atena; ma il piano riesce fino ad un certo punto, infatti i Tauri scoprirono la fuga e si lanciarono all’inseguimento per ucciderli, ed è a questo punto che Atena apparve in alto nel cielo e ordinò a Toante, re de Tauri, di non proseguire nel suo inseguimento e liberare le altre donne elleniche, quindi ordinò a Oreste di erigere un tempio in Eubea dove custodire il simulacro di Artemide e dove Ifigenia avrebbe continuato ad essere la sacerdotessa fino alla morte, e infine accompagnò i tre nel loro viaggio fino in Grecia . (Euripide, Ifigenia in Tauride). Un’altra versione però, sostiene che i tre riuscirono a fuggire in nave e ad approdare sull’isola di Sminte, dove vi era un santuario di Apollo il cui sacerdote era Crise, figlio illegittimo di Agamennone, avuto da Criseide, figlia di Crise il vecchio, catturata da Achille durante la guerra di Troia e consegnata al re dei re. Crise ignorava chi fosse suo padre e credeva fosse Apollo, e quando Toante gli chiese di restituirgli i fuggiaschi e lui acconsentì, Crise il vecchio gli svelò chi fosse suo padre e che i fuggiaschi erano, pertanto, suoi fratelli, quindi Crise si unì a loro e riuscirono ad uccidere Toante e a tornare a Micene col simulacro di Artemide, placando così per sempre la furia delle Erinni (Igino, Miti 120/121). Un’altra versione ancora ci dice che Oreste e Pilade, dopo aver ucciso Toante, trasportarono il simulacro di Artemide in Italia, ad Ariccia, ma che i romani non gradirono la crudeltà dei sacrifici e pertanto la statua fu riportata a Sparta. Secondo questa tradizione, Oreste sarebbe sepolto a Roma, davanti al tempio di Saturno che si trova di fronte al colle del Campidoglio (Igino, Miti 261). Durante le peripezie di Oreste, sul trono di Micene si era insediato Alete, figlio di Egisto, al quale fu detto che Oreste era morto in Tauride. A Elettra, che si era recata a Delfi, fu detto che era stata Ifigenia, anche lei a Delfi in quel momento, ad uccidere Oreste, pertanto la focosa sorella era già pronta ad accecare Ifigenia con un tizzone ardente preso sull’altare, ma in quel momento entrò Oreste che chiarì il tutto; i tre, finalmente riuniti, tornarono a Micene dove uccisero Alete, e si apprestavano a fare la stessa cosa con la sorella, Erigone, che però fu salvata da Artemide che la portò in Attica facendone una sua sacerdotessa. In seguito Oreste sposò Ermione, mentre Pilade sposò Elettra . (Igino, Miti 122). Oreste ebbe un figlio da Ermione chiamato Tisameno e suo erede al trono, e un altro, Pentilo, dalla sua seconda moglie, Erigone. Seguendo il volere degli dei, Oreste si trasferì in Arcadia a Oresteo, dove morì per il morso di un serpente (Apollodoro, Epitome VI) e fu sepolto a Tegea (Pausania VIII 54 4); Erodoto (I, 65-68) ci dice che il suo scheletro fosse alto sette cubiti, ovvero più di due metri, ma altre fonti (Pausania III 2 1; Strabone XIII 1 3; Pindaro Nemee XI 33-35) dicono che un oracolo ordinò a Oreste di fondare delle colonie a Tenedo e Lesbo, dove morì, oppure che fu il figlio Pentilo a conquistare Lesbo. Lo scettro divino fabbricato da Efesto e che da Zeus, tramite Ermete, arrivò a Pelope e, passando dalle mani di Atreo e Tieste, infine giunse a Agamennone, fu ritrovato in Focide dove pare lo avesse nascosto Elettra (Pausania, IX 40 11/12).

Tomba dei Leoni.
Tomba dei Leoni.

Micene da allora non conobbe più i fasti e le tragedie vissute durante il regno degli Atrei e che ci hanno regalato capolavori immortali nelle varie arti, ma ancora oggi possiamo vivere queste fantastiche storie leggendo le opere di chi ne ha cantato le gesta, ammirando gli attori di queste storie dipinti su vasi, bassorilievi e su tante altre opere d’arte su cui sono stati riprodotti, e ancor di più potremo sentire la vera anima di Micene andando sul posto, salendo sul suo sacro colle, entrando nella sua roccaforte, aggirandoci tra le sue mura e entrando nelle sue tombe a tholos. Chi ha avuto la fortuna di farlo non è rimasto immune al magnetismo di questa mitica città e ne ha sentito forte dentro di sé la storia e il mito.

Ma andare a Micene non vuol dire semplicemente visitare uno dei più importanti siti archeologici al mondo, ma entrare nella sua essenza. Personalmente sono stato a Micene molte volte e spesso mi è capitato di dover percorrere la nuova strada che porta da Nauplia a Corinto e che passa proprio accanto al monte su cui ancora vive la roccaforte di Micene, e ogni volta ho sentito un richiamo forte e irresistibile a salire su, verso la roccaforte, anche solo per vederla un istante. Non è qualcosa di spiegabile razionalmente, ma piuttosto una forza invisibile e invincibile che mi spinge a salire sulla cittadella ogni volta che passo nelle sue vicinanze e vedo sulla vetta, tra le montagne brulle che sembrano disegnare col verde e il marrone dei loro colori il cielo sempre ventoso, le sacre mura di Micene, e quando accade in inverno, in estate quando ormai è tardi e il sito è chiuso, o addirittura di sera, allora, già solo percorrendo la salita mi sembra di entrare in un luogo dove il tempo perde il suo significato; passo accanto alla tomba di Agamennone e mi sembra di vedere Elettra che porta libagioni; arrivo nello spiazzale d’ingresso, intravedo la Porta dei Leoni, poi guardo verso il basso, verso il golfo di Nauplia, e improvvisamente tutto intorno a me cambia: compare Agamennone trionfante col suo seguito che sale verso Micene, Clitennestra che lo attende nascondendo i suoi propositi di morte, e nell’aria tutto intorno a me inizia a diventare sempre più grave il peso della tragedia che avvolge Micene. Si può percepire l’ineluttabilità del volere degli dei, che fecero degli Atrei una stirpe maledetta. Ma queste sensazioni non sono qualcosa di tragico che vorrei evitare di provare, come potrebbe far pensare la mitologia di Micene, bensì qualcosa di unico che solo qui si può vivere: la sensazione di entrare nel mondo del mito e viverlo davvero, con le sue tragedie in questo caso, ma anche con i suoi eroi e i suoi dei, e con tutta la forza delle sue storie che da millenni fanno parte di noi, della nostra cultura e del nostro vivere quotidiano. Inizialmente mi ha sorpreso scoprire che queste sensazioni così forti e particolari che Micene rende possibile vivere, fossero percepite, oltre che da me, anche da altre persone molto distanti tra loro per formazione culturale, età, origini e quant’altro, ma proprio leggendo ciò che hanno provato questi visitatori di Micene quando sono saliti sulla roccaforte, ho capito che non è così difficile entrare nell’essenza di Micene e, quindi, nel mondo del mito; basta avere un minimo di sensibilità e farlo nel modo giusto, così come hanno fatto i due scrittori che hanno descritto il fascino e il magnetismo di Micene con le parole che potete leggere di seguito. Ma se cercherete, troverete molti altri visitatori, celebri o meno, incantati dal fascino di Micene.

Tomba di Egisto.
Tomba di Egisto.

“A Micene si deve arrivare al crepuscolo. Non lasciatevi convincere dai viaggi organizzati, o da pullman in cui si grida la bellezza della maschera di Agamennone, scintillante d’oro in fotografie tratte dal Museo Archeologico di Atene dove è perennemente in mostra. Luoghi sacri come Micene non vanno presi d’assalto ma attesi. A me capitò per caso. Presi un’automobile, attraversai il Peloponneso, svoltai a Nemea e mi salvò lì, sul ciglio della strada, un vecchio rivenditore di vino. Volle che assaggiassi. Chiacchierava, mi parlava delle vigne e del suo rosso. Era buono, lo comprai. Comprai anche del miele, dolceamaro come l’amore secondo Saffo. E si fece tardi. Non conoscevo l’ora di chiusura del sito. Arrivai che si sentivano solo brusii di insetti. Il cielo si era fatto livido. La valle verdissima di inizio maggio si apriva tra le rocce della montagna, cupa e violenta come il taglio diabolico di un dio impaziente. Non c’era nessuno intorno. Un silenzio spettrale. Una pace assoluta e la tragedia incombente. Credetemi, si sentiva la tragedia, la potevi toccare, faceva quasi paura. Una curva ancora e Micene apparve. Un cane latrò all’improvviso nel nulla. Non una macchina, non un pullman sul piazzale terroso. Le rovine della città antichissima deserte. Non si poteva entrare, certo. Ma si vedeva bene la porta dei leoni, la famosissima porta. Si sentiva la presenza di millenni di tragedia. E lì ebbi l’impressione di essere con Agamennone, il giorno in cui fece ritorno a Micene con l’animo in subbuglio, pronto all’amore e alla felicità, mentre tutto invece preparava al dolore.” (Matteo Nucci - 'Le lacrime degli eroi' pag.106)

Tomba di Clitennestra.
Tomba di Clitennestra.

Micene, appena sente questo nome sospira. Le chiedo come mai questa reazione nel sentire pronunciare Micene e lei mi spiega le sensazioni uniche vissute quando è stata a Micene!
Miti3000: ci stava raccontando delle sensazioni provate a Micene.
G.Dembech: sì. Se si va in un sito archeologico di cui prima ti sei studiato la storia, poi ti sei studiato la mitologia e poi desideri vederlo, quando sei lì sul luogo è chiaro che ci vai col cuore, con l'anima, con i sensi eterici. Io sono un po' lo strano anello di congiunzione tra la parte storica, reale, e quella esoterica, che è altrettanto reale di quella storica, solo che non l'accettano e pazienza, è un limite loro.
Miti3000: è un limite umano.
G.Dembech: è un limite umano. Per cui, quando si arriva su un sito che tu conosci, che hai studiato col cuore, poi quando sei lì lo senti, lo percepisci, perché la terra ti racconta ancora le cose; la terra rimane impregnata di vibrazioni della storia, delle cose che lì accadono. È come, non so spiegare, è come entrare nella pista di un registratore; è come essere immersi nel nastro magnetico e sentire quello che c'è dentro.
Miti3000: quando parla di Micene le brillano gli occhi!
G.Dembech:ah! Quando parlo di Micene non solo, mi prende la tachicardia! Ricordo quando sono arrivata lì per la prima volta: sotto la salita ci sono le mura arcaiche (che poi bisognerebbe capire cosa significa arcaico; dietro la parola arcaico ci nascondono, boh? Mistero!). Quando vedi la Porta dei Leoni dopo che l'hai studiata, l'hai sognata, l'hai vista mille volte, passare lì sopra, come dicevo, è stata una sensazione unica; io ho perso tre o quattro battiti del cuore in quell'attimo in cui varcavo la soglia della Porta dei Leoni, mi si è fermato il cuore per alcuni secondi, perché camminavo sui passi di Agamennone, sui passi di Clitennestra; poi di tutti quegli eroi sepolti là intorno, ammesso che ci abbiano sepolto veramente degli eroi là intorno, nel cerchio degli eroi, appena si entra a destra. Ma può darsi, perché loro avevano molto forte il culto degli antenati. E poi, un'altra impressione fortissima, quando siamo arrivati davanti a quella che loro chiamano la tomba di Agamennone. (‘Il sentiero degli dei’- Intervista a Giuditta Dembech)

Giorgio Manusakis