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Giorgio Manusakis intervista l’archeologo napoletano autore del saggio in cui svela che la celebre statua, esposta al MANN, non è un Doriforo.

Doriforo
Il prof. Vincenzo Franciosi è l’autore del saggio in cui si mette in discussione che la famosa statua, esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e denominata ‘Doriforo di Policleto’, sia realmente un ‘Doriforo’, ovvero un ‘portatore di lancia’. Il 10 ottobre scorso abbiamo pubblicato un articolo, che trovate a questo link Il Doriforo del Mann: un Teseo con scudo e spada? , in cui si riassumevano le motivazioni e le prove che lo studioso partenopeo espose nel saggio, a supporto della sua tesi. La scoperta dell’archeologo napoletano, docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, scosse la comunità degli studiosi che, da secoli, aveva identificato la celebre scultura come una copia romana del Doriforo, attribuito al famoso scultore Policleto di Argo, vissuto in Grecia nel V secolo avanti Cristo. Ne abbiamo parlato con l’autore della scoperta e del saggio, il prof. Vincenzo Franciosi, per cercare di svelare gli altri misteri che ancora circondano quest’opera d’arte.

D: Prof. Franciosi, da dove nasce l’intuizione che questa famosissima statua, da sempre ritenuta un Doriforo, in realtà non lo fosse?

R: La ricostruzione dell’archetipo statuario del Doriforo quale giovane nudo che porta la lancia da guerra con la sinistra, mentre il braccio destro pende inerte lungo il fianco (si veda la riproposizione in bronzo di Georg Roemer), mi ha sempre provocato un senso di fastidio. Non mi convinceva un “canone” (n.d.r.: formula compositiva scultorea) mancino, né potevo accettare che un artista come Policleto, autore, per di più, di un trattato sulla simmetria, avesse concepito una figura del genere: a parte la pericolosità costituita dal calcio della lancia che sporge fuori dalla base ad altezza d’uomo, l’asta, bilanciata sulla spalla, viene a distruggere la composizione armonica e razionale dell’opera, creando una rottura dei piani e un senso spaziale impensabili per una scultura greca del V sec. a.C. Osservavo, poi, che la figura del Doriforo, a parte la caratteristica gravitazione su una sola gamba, si presentava identica a quella dei Bronzi di Riace: la posizione tipica di chi imbraccia lo scudo (sia detto per inciso: in greco classico le espressioni ‘epí dory’ – dalla parte della lancia – ed ‘ep’aspída’ – dalla parte dello scudo – si utilizzano per indicare rispettivamente la destra e la sinistra).

D: La prova che ha convinto tutti gli studiosi che la sua tesi fosse esatta, è stato il ritrovamento di tracce di ossidazione, dovute al bronzo, sul braccio sinistro, che testimoniano la presenza di uno scudo e non di una lancia. Può spiegare ai nostri lettori come mai ci sono voluti secoli per scoprirla?

R:“Tutti” non direi. La presenza dello scudo è un fatto incontrovertibile, ma c’è chi non vuole rinunciare al Doriforo proponendo di vedere nella sinistra della figura sia “l’antilabé” (n.d.r.: l’impugnatura) dello scudo che l’asta della lancia, oppure chi, pur accettando la ricostruzione dell’archetipo con scudo nella sinistra e spada nella destra, si è spinto ad affermare che solo il Doriforo pompeiano doveva impugnare lo scudo, mentre le altre repliche avevano certamente la lancia!

È il facile adagiarsi nell’“ipse dixit” che ha impedito per un secolo e mezzo di osservare la statua pompeiana con occhi diversi.

D: Nel suo studio lei non esclude la possibilità che l’opera sia da attribuire a Policleto. A suo parere si tratta effettivamente di una copia di una sua scultura?

R: L’archetipo è sicuramente policleteo. Lo testimoniano le sue proporzioni e il caratteristico motivo del passo, grazie al quale il peso del corpo viene scaricato su di una sola gamba portante che, avanzando, determina una serie di reazioni a catena all’interno della figura, una serie di ‘quadrationes’, ossia corrispondenze chiastiche (n.d.r.: il ‘chiasmo’, in scultura, è una formula compositiva a ‘X’ che in Policleto prende il nome di ‘Canone’, da un suo trattato in materia, andato perduto) ed omologhe fra tensioni e flessioni, che danno l’impressione di un corpo teso e vibrante.

D: Nel suo saggio lei ipotizza che la statua in realtà raffiguri l’eroe mitico Teseo, ma su questo non tutti gli studiosi concordano; alcuni, ad esempio, ritengono che nella mano sinistra, oltre lo scudo, la statua impugnasse anche una lancia e che possa raffigurare Achille o Patroclo, come in una stele funeraria ritrovata a Salamina (in Grecia) e da lei citata nel suo studio. Ad oggi qual è la tesi più accreditata?

R: Il periegeta Pausania, racconta di aver visto, nel corso della sua visita al ginnasio di Messene, tre statue raffiguranti Hermes, Eracle e Teseo. Gli scavi di Pétros Thémelis negli anni ’90 del secolo scorso hanno portato alla luce nella ‘stoá’ occidentale del ginnasio di Messene tre statue marmoree: le prime due rappresentano Hermes ed Eracle, mentre la terza è una replica di età augustea, del cosiddetto “Doriforo” di Policleto. L’esatta corrispondenza tra il dato archeologico e quello letterario indurrebbe a credere, quindi, che il personaggio da riconoscere nel tipo del “Doriforo” sia l’eroe attico Teseo, e non il tessalo Achille, come ipotizzato nel 1909 da Friedrich Hauser. L’identificazione di Hauser si basava sostanzialmente su due elementi: il passo della ‘Naturalis Historia’ (XXXIV, 18) in cui Plinio afferma che «un tempo, quindi, si dedicavano statue togate. Piacquero anche statue nude che tenevano la lancia sul tipo di quelle degli efebi (n.d.r.: adolescenti) poste nei ginnasi, che chiamano Achillee»; il rinvenimento ad Argo della famosa stele funeraria in marmo sulla quale è raffigurato, in bassorilievo, un personaggio in schema policleteo, che porta con la sinistra un ‘akóntion’, ovvero un corto giavellotto, poggiato alla stessa spalla e conduce per le redini un cavallo.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: perché mai Achille avrebbe dovuto farsi ritrarre con uno solo dei suoi cavalli? Chi avrebbe lasciato nella stalla, ‘Balíos’ o ‘Xánthos’? Oltretutto, la tradizione ci parla della chioma bionda di Achille, mentre i capelli del “Doriforo”, come si vede dalle foto precedenti l’ultimo intervento di restauro, nel 2002, dovevano essere scuri, probabilmente di colore castano scuro.

Non ostante la labilità delle prove addotte da Hauser, la proposta di riconoscere l’eroe tessalo nel tipo del Doriforo è stata accolta, si può dire, universalmente. Pochissime le voci dissonanti, come, ad esempio, quella di Carlo Anti, che vide nella figura un atleta vincitore, o quella di Werner Gauer, che propose di riconoscere Oreste, o quella di Luigi Beschi ed Eugenio La Rocca, secondo i quali la statua, venendo ad essere il manifesto dei principi artistici di Policleto, non poteva rappresentare che sé stessa, cioè un uomo con la lancia.

La nuova ricostruzione proposta per il “Doriforo” quale giovane nudo, armato di spada nella destra e scudo nella sinistra, ben si accorda con il riconoscimento dell’eroe attico nell’archetipo statuario. La spada è, infatti, l’attributo specifico di Teseo, l’arma con la quale il giovane eroe supera gran parte delle sue prove iniziatiche, su tutte l’uccisione del Minotauro e la liberazione dei sette ‘épheboi’ (n.d.r.: efebi) e delle sette ‘parthénoi’ (n.d.r.: vergini) ateniesi.

È assai verosimile che la "pólis" di Atene abbia commissionato al grande bronzista peloponnesiaco, ivi trasferitosi intorno al 445 a.C., come prima opera, proprio l’effigie bronzea dell’eroe “nazionale”. In tal caso il “Doriforo” costituirebbe non l’ultima opera policletea di ambiente peloponnesiaco, come si è soliti affermare, ma la prima di ambiente attico.

D: Quanto ritiene probabile che ulteriori studi e scoperte archeologiche possano svelare del tutto il mistero di questa famosa statua?

R: Poco probabile, a meno che non venga alla luce l’originale bronzeo di Policleto!

D: Napoli è una città che nasconde ancora molti segreti archeologici, ha in programma altri studi tesi a svelare antichi misteri?

R: Recentemente ho pubblicato in “Napoli Nobilissima” uno studio relativo al cosiddetto “Massimino Farnese” del MANN. Considerato a lungo quale ritratto onorario dell’imperatore Massimino il Trace, fu riconosciuto oltre vent’anni fa da Stefania Adamo Muscettola quale ritratto in nudità eroica di Marco Nonio Balbo, patrono di Ercolano. In realtà si tratta di una statua ricomposta in epoca moderna inserendo un ritratto veristico tardorepubblicano, non pertinente, in un corpo tardo augusteo o tiberiano, replica, molto probabilmente, dell’Hermes di Policleto (la statua è identica a quella rinvenuta da Petros Themelis nel ginnasio di Messene). Un altro lavoro è in corso stampa in “Rivista di Studi Pompeiani” e riguarda i cosiddetti “Corridori” di Ercolano, in realtà due giovanissimi lottatori, che andrebbero posizionati affrontati.

Molte delle opere custodite nel MANN, soprattutto le più famose, andrebbero riviste con occhio critico e privo di pregiudizio. Penso, ad esempio, alle statue dei Tirannicidi, identificate da Karl Friederichs nel 1859 e ritenute universalmente, ormai, repliche del gruppo creato da Kritios e Nesiotes nel 477 a.C. o alle cosiddette “Danzatrici” di Villa dei Papiri, ritenute essere un unico gruppo. Non escludo in un prossimo futuro lo studio, anche in collaborazione con miei laureati e specializzati, di tali “gruppi” statuari.

Per approfondimenti: Il Doriforo di Pompei