Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

Il territorio degli Iblei
Grigie scogliere su un mare deserto
violato, incompreso.
Nudi profili
tormentati dal vento,
corrosi dal tempo.
I segni del divenire,
dell’essere e del passato.
Ma, lassù, ampi spazi
e silenzi
ricreano l’ansia e l’amore
per l’Eterno.
E il cuore non si spaura
in questa briciola
d’immensità.

Tino Insolia

 

Lo stupore, il fascino e un grande senso d’immensità sono sentimenti che queste montagne hanno da sempre ispirato.

Osservati dall’alto di un aereo, gli Iblei assomigliano ad una mano dalle lunghe dita, che si apre a ventaglio verso il mare. Interessano, soprattutto, tre province: Catania, Ragusa e Siracusa, in maniera particolare le ultime due.

Estesi dal golfo di Gela a sud-ovest fino a Lentini e la sua piana, limitata a nord dal Simeto, essi occupano quella parte della Sicilia meridionale che, simile ad un tozzo e vasto promontorio, si protende verso il Golfo della Sirte e l’Africa.

Da questi suoi due punti estremi, l’isola si restringe come la punta di un aquilone fino a Capo Passero, circondato da spiagge, cale e insenature di una bellezza minacciata che sarebbe ancora possibile salvare.

Le creste montuose, dal punto di origine del massiccio, situato sul Monte Lauro a 986 m.s.l., la cima più alta degli Iblei vicino Buccheri, sciamano verso il mare, percorrendo poche decine di chilometri, prima di raggiungerlo. In queste breve tragitto, esse segnano profondamente il territorio, che appare come argilla scavata dalle mani di un vasaio, modellata da una Natura selvaggia e imprevedibile.

L’Anapo, il Tellaro, l’Irminio e il Cassibile: fiumi brevi e tortuosi che, nel tratto iniziale, scorrono tra alte pareti scoscese, in mezzo ad una folta vegetazione di platani, pioppi, capperi e capelveneri. L’acqua scivola sulle pietre muschiate, gorgogliando con suono basso e lieve; gracida il rospo, vola la libellula.

In pianura, canneti e giunchi orlano i corsi d’acqua e il papiro arricchisce di fascino il Ciane, il fiume che sboccia come un fiore liquido a soli tre chilometri dal mare, nei pressi di Siracusa.

Sugli Iblei vive una grande varietà di piante. Dalle umili graminacee, la Poa annua, l’Avena sativa e l’orzo, alle cespugliose e arbustive come le euforbie, la salvia, il rosmarino, gli asfodeli, il pistacchio e il lentisco, dai teneri Iris, Rumex, Borragine ai cardi pungenti che svettano come torri esili, a guardia di prati sterminati e brulli.

E poi ulivi, pruni, carrubi e querce, i grandi alberi che ora raggruppandosi, ora diradandosi, trasformano il territorio in un grande giardino, un enorme tappeto macchiettato e variopinto, ricco di colori accesi, scintillanti al sole e mutevoli allo scorrere delle stagioni.

Visti dall’alto, sembrano pecore di un gregge sterminato, disperso su un pascolo immenso, dove colline sconosciute si alternano a fosse, cave e abissi come onde di un mare minaccioso, dove la vista si estende su terre sconfinate dai nomi storici di vecchi feudi, regni, spesso, di povertà ed ingiustizia.

Gli Iblei derivano da rocce sedimentarie, sprofondate nel Mar Mediterraneo milioni di anni fa e sollevate come enormi fette di una gigantesca torta dall’ultima orogenesi, quella alpina, ancora in atto, che porta l’Africa e l’Europa a scontrarsi, sprigionando un’energia sussultoria e ondulatoria immensa, le cui conseguenze funestano spesso il nostro continente con disastrosi terremoti.

Tale origine si evidenzia nella stratificazione delle pareti e nella presenza di vasti e piatti tavolati, orlati e interrotti da fratture improvvise e precipiti: le cave. La natura calcarea dei sedimenti (gusci di Molluschi, Echinodermi, scheletri di Pesci e piccoli Mammiferi), a parte alcune zone vulcaniche vicino Noto, é la causa principale della trasformazione morfologica avvenuta in essi.

Grazie al fenomeno carsico, infatti, che trasforma il carbonato di calcio in bicarbonato, solubile in acqua, ad opera della pioggia e dell’anidride carbonica contenuta nell’aria, gli Iblei sono diventati un’enorme gruviera, un dedalo di fiumi sotterranei, lungo i quali volte e stalattiti si sono formate nel buio dei loro cammini millenari, avendo come unici spettatori il buio, il tempo e i grandi silenzi.

Le acque piovane, in superficie, hanno corroso le parti più tenere, disgregandole meccanicamente e chimicamente, trasportandole altrove, abbassando sempre di più il terreno e creando i dislivelli che movimentano il paesaggio con le loro ondulazioni, alte colline simili a dorsi di caimani dalla pelle dura e squamosa.

Torri, altipiani e cave dalle grigie e nude pareti, maculate dal verde dei capperi pendenti e arditi, sono il frutto di milioni di temporali, di nuvole gonfie degli umori del Mediterraneo, provenienti dall’Africa, spinte dallo scirocco, quel vento del deserto che con il suo grande respiro solleva e trasporta la sabbia colore dell’oro delle dune, simile a neve polverosa e gialla.

E alla fine di queste montagne sassose, ai piedi di queste immense e antiche scogliere, dove si può leggere ancora la storia del mondo, si aprono le pianure con i tappeti verdi degli agrumeti, con le fiumare asciutte e argillose, con le stoppie gialle dei pochi campi di grano rimasti, con il blu di quel mare che si staglia come una linea sottile, là in fondo all’orizzonte.

Basta, però, allontanarsi di qualche chilometro dalle pianure, percorrere i primi tornanti, vedere sparire l’azzurro del mare per entrare in una realtà diversa, dove le case e gli uomini si diradano, come dispersi da un vento inarrestabile e incontenibile.

Gli spazi si dilatano, diventando enormi e vedi le case appollaiate sulla cima delle colline come sentinelle, poste a difesa di campi ormai abbandonati, impossibili da coltivare.

Sembrano ombre, fantasmi di una realtà vicina, eppure così lontana. I tetti crollati, spogli dei coppi ingrigiti, e le pareti, custodi fedeli e devote di un’intimità ormai violata, sembrano bastioni di torri, rimaste a difendere una vuota trincea, a simboleggiare un abbandono senza ritorno, una resa senza riscatto.

Gli Iblei di Verga e Quasimodo, gli Iblei di Palazzolo Acreide e Giarratana, dell’uva e del vino di Mazzarrone, della Cava Grande sul fiume Cassibile, di Pantalica, la necropoli dai mille occhi neri, a strapiombo sull’Anapo, gli Iblei di Sortino e Cassaro e delle loro gole a precipizio, della tenera Buscemi e delle nevaie di Buccheri, gli Iblei di Modica e Ragusa Ibla, simili a presepi con le file di case piccole e addossate, digradanti verso il fondo dei torrenti stretti e incassati, con i loro vicoli antichi, somiglianti a vene e arterie un tempo pullulanti di vita, gli Iblei dalle lingue di rocce grigie, affioranti dalle zolle nere e grumose, gli Iblei ventosi e brulli, dove anche il chiaro dei calcari si riveste dei colori del mirto e delle euforbie, dove il profumo della salvia e delle mille piante odorose, stordiscono per la loro intensità e fragranza, gli Iblei di Noto, culla di un barocco dai rossori caldi e scintillanti delle sue pietre al tramonto, assediato e minacciato dall’incuria dell’uomo, gli Iblei dei canti e delle feste, dei riti e dei miti, rimangono, oggi come sempre, il palcoscenico di una umanità ricca di contraddizioni, di contrasti profondi come il clima, dai sentimenti intensi, rivestiti dei colori forti e saturi di questi luoghi, del cielo e del mare, dell’erba e della terra.