Per ricostruire il percorso che portò i Sicani in Italia, prima nel Lazio e successivamente in Sicilia, ci siamo avvalsi dei dati forniti dagli storici antichi. Tuttavia le loro testimonianze, pur preziose, sono parziali e debbono essere analizzate e reinterpretate alla luce delle nuove conoscenze, acquisite grazie alle moderne tecnologie e alle nuove discipline di ricerca scientifica - l’archeologia astronomica, l’archeologia misterica, lo studio etimologico delle lingue antiche - che vedono impegnati un numero crescente di appassionati e validi studiosi.
Gli antichi storici non hanno potuto utilizzare questi strumenti. Non c’è pertanto da meravigliarsi se osservatori degli antichi costumi dei popoli stranieri, tra i quali Tacito, poco compresero del significato di certi riti praticati dai popoli con i quali vennero a contatto, come quello dei Germani, uno dei più importanti ai fini della nostra ricerca, definiti sommariamente barbari in una Roma ormai salottiera. Poco compresero questi storici della religiosità dei popoli germanici, nonostante la religione romana, sette secoli prima, contenesse elementi e simboli chiaramente riconducibili a quella germanica, come la fondazione di Roma, raccontata da Plutarco, lascia chiaramente intendere. Certamente dobbiamo agli storici classici la possibilità di ricostruire la primordiale Weltanshauung di questi comuni antenati, anche se la mancanza di adeguate competenze etimologiche li privava di ulteriori elementi di riflessione; Plutarco narra, a tal proposito, di un’animata discussione avvenuta in un salotto colto romano, sul significato del nome Carmenta, conclusasi con la non unanime attribuzione del significato “priva di senno”. In realtà l’etimo del nome riconduce al nord europeo Carre, cioè fortezza, quadrato, e Mn, cioè mente; se i commensali di Plutarco avessero tenuto conto di tale derivazione nord-europea e del fatto che la sacerdotessa Carmenta creava versi per gli dèi, avrebbero facilmente dedotto che il significato del suo nome non era “priva di senno” ma, al contrario, “fortezza della mente”, anche in virtù del fatto che Carmenta poteva interloquire con gli dèi e tener loro testa.
Oggi, grazie alle molte discipline scientifiche di cui è possibile avvalersi, possiamo meglio essere in grado di svelare molti arcani che hanno offuscato l’intelletto di alcuni pensatori per millenni, fin dai tempi di Tucidide che, per primo, si chiese da dove provenissero, chi fossero e donde avessero preso il loro nome quei mitici Sicani che, per migliaia d’anni, avevano popolato e dominato la Sicilia e di cui, già al suo tempo, non era rimasta traccia alcuna, se non in qualche leggenda. Noi, come quei trovatelli che, alimentati dal fuoco interiore, anelano a ritrovare le proprie radici e chiamare padre, finalmente, colui che non hanno mai conosciuto, scaveremo nel sacro suolo siciliano, in profondità, fino a trovare le robuste radici di quell’albero genealogico comune al popolo indoeuropeo, fino ad arrivare al popolo primordiale (ur volk) di cui noi, singoli uomini, siamo le semplici caduche foglie.
ORIGINE DEL POPOLO SICANO
I Sicani arrivarono in Italia migliaia di anni fa. Probabilmente la fine dell’ultima glaciazione, avvenuta dodicimila anni fa circa, fu la causa di una delle ultime migrazioni dei popoli nord-europei. Virgilio, nella sua opera storico letteraria, l’Eneide, cita i Sicani tra i popoli stanziali nel Lazio. Sulla consanguineità dei Sicani del Lazio e quelli della Sicilia abbiamo disquisito sufficientemente nel saggio Dalla Skania alla S(i)cania, di conseguenza le nostre riflessioni si riferiscono indifferentemente agli uni e agli altri. Virgilio ha il merito di avere fatto arrivare fino a noi, tramite il suo racconto, un considerevole numero di toponomi, andronimi, oltre che la conoscenza degli usi e dei costumi dei popoli del centro Italia, che richiamano quelli del nord Europa e di cui, nel saggio sopra menzionato, abbiamo molto disquisito onde provare le radici nord europee del popolo Sicano. Ma dobbiamo a Tacito, il quale ha lasciato ai posteri un dettagliato elenco di molte tra le numerosissime tribù germaniche esistenti, a loro volta suddivise in una miriade di sotto tribù, se siamo arrivati a comprendere l’origine del termine Sicano. L’attento lettore si meraviglierà per quanto stiamo affermando visto che Tacito, nel suo trattato sui costumi dei Germani, non cita nessuna tribù con questo nome. Il ricercatore ha però il compito di “cercare” le briciole di storia lasciate cadere lungo i margini dei sentieri percorsi dai narratori e dagli storici, per rimetterle assieme e ridefinire un quadro coerente e plausibile. Mettendo assieme queste briciole abbiamo formulato l’ipotesi secondo la quale il termine Sicani sia un attributo conferito ad una parte, oltremodo rappresentativa, di un’intera popolazione.
I popoli nord-europei subirono una continua mitocitosi, una continua divisione cellulare, in seguito alla quale non è distinguibile la cellula madre dalla cellula figlia: un popolo originario dà continuamente vita ad un’infinità di sotto gruppi, così come accade ad una famiglia che, attraverso gli eredi, dà inizio ad un’infinita catena umana, al punto che l’anello finale di questa catena è così distante da quello iniziale da aver perso ogni rapporto mnemonico con l’origine. I nostri avi Sicani potrebbero, alla luce di tali considerazioni, essere stati una costola della tribù germanica dei Senoni, attestata da Tacito. Questi, a loro volta, come afferma lo storico, erano un sottogruppo, il più nobile e antico, dei Suebi. La vetustà dei Senoni viene confermata dalla celebrazione di un antico rito religioso che essi praticavano. Tacito scrive:
”In una determinata epoca (le tribù germaniche) si raccoglievano per mezzo di delegati, in una foresta sacra per i riti degli Avi”.
Noi crediamo alla possibilità, come spiegheremo sotto, che proprio a questi delegati sia stato apposto, in seguito, in onore dell’Avo celebrato, l’attribùto di Sich Ahne (“ l’Avo in sé”); abbiamo maturato tale convinzione oltre che per il significato letterale del termine, in seguito all’interpretazione dello stesso rito religioso, che trasmetteva agli eredi Germani un messaggio d’ordine esoterico. Il rito, secondo il racconto di Tacito, si svolgeva nel seguente modo:
“Cominciano a celebrare con l’uccisione di un uomo in nome dello Stato, il barbaro rito ed orrendo. Vi è anche un altro modo di manifestare il culto reverente del bosco sacro: nessuno vi può entrare se non avvinto da lacci dimostrando con la propria inferiorità il dominio del nume sopra di lui (…). Tutto questo rito superstizioso vorrebbe rappresentare che di là ebbe inizio la stirpe, che là risiede il dio che regna sovrano e che tutto il resto è suddito a lui e gli obbedisce”.
È chiaro che il rito aveva il duplice scopo di trasmettere in primo luogo un insegnamento in chiave esoterica, in base al quale l’eventuale premio ricevuto dall’uomo introdotto nel bosco sarebbe stato il frutto di una conquista tutta individuale; in secondo luogo quello di riattualizzare l’apoteosi dell’avo e la sua ascesa in cielo, facendola rivivere nel tempo presente, rendendola reale. Ricollocando nel presente il tempo mitico in cui l’Avo aveva dovuto sostenere le prove nell’aldilà per rendersi simile agli dèi, si otteneva come effetto l’annullamento dello stesso concetto di tempo. Dopo aver mimato la morte presumibilmente simbolica del neofita o di colui che veniva equiparato all’antenato primordiale (che Tacito presenta, invece, come reale), il rito riproponeva, attraverso il simbolismo dei legacci applicati al neofita e del percorso nella foresta, cosparso di difficoltà, le stesse difficoltà che l’Avo aveva dovuto sostenere quando si era ritrovato al cospetto degli dèi, nel luogo a lui sconosciuto dell’aldilà, per guadagnarsi il suo nuovo status di “divo”. Un simile rito si continua a proporlo all’iniziando massone che, con le mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati, viene introdotto in una stanza al cospetto dei maestri. L’iniziando, mimando di zoppicare a motivo dei legacci che avvincono i suoi piedi, viene sottoposto ad una serie di interrogazioni le cui risposte vengono sottoposte al giudizio dei maestri. Anche in Mesopotamia, ad ulteriore conferma delle nostre tesi sulla consanguineità tra Sumeri e Sicani, Gilgamesh, come l’Avo primordiale nordeuropeo, deve superare delle prove per raggiungere l’immortalità, aiutato dal proprio antenato Utanapistim.
Se abbiamo colto nel segno, ammesso che Tacito abbia citato il nome di tutte le tribù presenti nel territorio dei Germani e che tra queste non vi fosse quella dei Sicani, si può comprendere il motivo dell’assenza di una tribù col nome di Sicani. Essa semplicemente non veniva ancora denominata con tale attributo, assunto dalla popolazione, forse in memoria dei riti ancestrali, nei nuovi territori d’insediamento, durante le fasi della sua forzata migrazione, oppure attribuita dai popoli locali, che osservavano con vivo interesse i suoi riti. Infatti, questo popolo migrante viene così appellato in Francia, in Spagna e in Italia, in quei territori cioè, a sud della Germania, che i nostri migranti attraversarono nel tentativo di raggiungere climi migliori rispetto a quello rigidissimo che si erano lasciati alle spalle nella propria terra natia. In Gallia è attestata da Cesare la presenza della tribù dei Sequani, il cui nome costituisce una deformata pronuncia del termine Sicani. Da Cesare apprendiamo che i Sequani erano la seconda tribù gallica in termini di importanza e antico prestigio, confermate dal fatto che essa aveva assunto il dominio territoriale su una buona fetta della Gallia. Si consideri che i Galli, come afferma Cesare nel De bello gallico, erano in sostanza dei Germani addomesticati, a significare il fatto che avevano la stessa origine.
Il lettore non si stupirà pertanto se ricercheremo ulteriori affinità, evidenti già nella denominazione delle popolazioni in oggetto, tra i Sequani gallici e i Sicani di Adrano. Sia in Gallia che in Sicilia vi erano caste sacerdotali con simili funzioni: i Druidi in Gallia, ossia “coloro che invocano la potenza” (da dhr, forza, furore, e iti, chiamare, evocare) e i sacerdoti Adraniti in Sicilia, che evocano la potenza dell’Avo sicano (Anu). L’affinità tra le due caste sacerdotali, che implica uguali caratteristiche nella gestione del culto, trapela anche sotto il profilo linguistico, tradita dal lessema dhr che costituisce il nucleo dei due nomi e poco importa se in Gallia questa forza, potenza o furore fosse evocata personalmente dagli stessi sacerdoti, senza l’intermediazione del dio/avo come in Sicilia.
In questa breve indagine intorno al ruolo dei sacerdoti Druidi, ci torna prezioso l’aiuto di Cesare che, descrivendoli, li definisce una delle due categorie di uomini più rispettati fra i Galli, assieme ai cavalieri. Più avanti, però, il Romano, lascia intendere che molti, tra i capi dei cavalieri, erano Druidi essi stessi o comunque erano stati educati alla scuola di questi potenti sacerdoti. Questo spiega il prefisso sacro “vè” contenuto nel nome attribuito al più temuto capo gallo, Vercingetorige. Nonostante dalle fonti storiche non sia pervenuta alcuna notizia sulle attività cultuali praticate dai sacerdoti sicani, molti indizi portano a supporre che essi avessero conoscenze e compiti, sia cultuali che sociali, analoghi a quelli dei Druidi. Cesare, a proposito dei Druidi, afferma che:
“presso di loro si raccoglie per istruirsi un gran numero di giovani (…) vengono insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dèi”.
Come non associare queste affermazioni ai capitelli di colonna in pietra lavica rinvenuti ad Adrano nei quali sono scolpiti, in bassorilievo, le spirali simbolo delle galassie, i cerchi contenenti le croci latine e le croci di S. Andrea, con riferimento al calendario solare e lunare, alle quattro stagioni, alla suddivisione della terra secondo i quattro punti cardinali.
Le affinità non sono finite. Cesare racconta infatti dell’abitudine dei Druidi di recarsi, in un certo periodo dell’anno, al fine di prendere le decisioni e deliberazioni più importanti, in un luogo ritenuto sacro, che si trovava nella terra dei Carnuti (nome formato dall’unione dei lessemi carre, fortezza, e nett, pulizia, candore, con il significato conseguente di “fortezza dei puri”), ritenuta centro spirituale della Gallia. Come non andare con la mente al tempio di Adrano, centro spirituale della Sicilia sicana, nel quale, nel momento cruciale di una guerra anti tirannica che avrebbe portato alla liberazione della Sicilia dall’oppressione dei tiranni greci, Timoleonte, come si evince fra le righe del racconto plutarcheo sulla vita dell’eroe, in solenne concilio, raduna tutti i capi della coalizione provenienti dall’intera Sicilia. Come non vedere in Ducezio e in Arconide gli equivalenti sicani di un Vercingetorige educato alla scuola dei druidi, se non druida egli stesso (Alesa...) NOTA
Un’ulteriore riflessione mostra importanti analogie fra i Sequani di Cesare e i Sicani. Cesare scrive nel VII libro del De Bello Gallico : “I Galli usano trasmettersi la notizia attraverso i campi e le regioni con alte grida che altri sentono e trasmettono successivamente ai vicini”. Per quanto fisicamente possenti possano essere stati gli antichi nostri antenati, non crediamo possibile che la loro potenza polmonare permettesse di fare arrivare distintamente frasi, a volte di vitale importanza, fino a villaggi lontani parecchi chilometri. Crediamo plausibile, invece, che conoscessero, anche intuitivamente, le leggi della fisica e che sapessero sfruttare conoscenze di ingegneria edile per utilizzare l‘eco prodotta “urlando” in una grotta scavata opportunamente nella roccia. A sua volta, il villaggio oggetto del “richiamo”, riceveva l’eco, amplificata grazie ad un’apertura ricavata nella roccia della propria acropoli, come se fosse un grande orecchio. L’osservazione delle formazioni rocciose dell’acropoli sicana del villaggio siciliano di Cerami, le cui foto abbiamo pubblicate nell’articolo La geometria sacra nella fondazione delle città sicane. L'urlo degli Avi, che mostrano chiaramente tre teste umane nell’atto di chiamare, ascoltare e osservare, sembrerebbero supportare quanto sostenuto sopra.
Varie ragioni inducono a credere che Adrano, in epoca sicana e forse fino alla conquista romana, abbia rappresentato il centro della spiritualità isolana. Ogni famiglia, ogni città, ogni tribù sicana consacrava un proprio centro sacro attorno al quale fosse possibile riunirsi per stabilire un contatto con gli Avi o col divino in generale. Per la famiglia tale centro era simbolicamente costituito dal focolare posto al centro della stanza; per la città era costituito dall’altare, tempio o santuario sul quale si bruciavano gli aromi alla divinità e attorno al quale la città cresceva e si sviluppava concentricamente; la nazione, come si ricava dal racconto di Cesare sui Galli, stabiliva in una località particolarmente ricca di forze extrafisiche il proprio centro. Tutti i popoli ebbero bisogno di un punto di riferimento collettivo, di un centro. A volte era un’intera nazione a fare da centro, come nel caso della Media, o una regione, come nel caso del Med in Irlanda. La terra, per la sua forma sferica, ammette la possibilità dell’esistenza di diversi luoghi di culto capaci di autodefinirsi “centro del mondo” o “terra di mezzo” (Med) proprio per l’equidistanza dal nucleo terrestre.
Ognuno sia in grado di trovare il proprio centro, il punto fermo o asse d’equilibrio, riscoprendo l’antica saggezza dell’antica nostra terra: Trinacria o triangolo aureo o le tre potenze di Dio.
Francesco Branchina