Le riflessioni che proponiamo ai nostri lettori in questo articolo prendono spunto dal riferimento, contenuto nel testo di Diodoro, ad una città siciliana chiamata Trinakria la quale, secondo lo storico agirese, avrebbe militarmente sposato la causa sicula del celebre condottiero Ducezio, che intendeva riconquistare i territori atavici, erosi infidamente dai coloni greci, e riaffermare la tradizione sicana, minata dalle mistificazioni e dalle sovrapposizioni culturali dei Greci. L’improvvisa ma temporanea apparizione nella storia della città in questione, avvenuta durante la breve ascesa militare dei Siculi, grazie al genio di Ducezio, e la sua successiva scomparsa, ha suscitato una serie di interrogativi: primo tra tutti, come sia stato possibile che una città così potente militarmente non abbia mai fatto parlare di sé né prima né dopo la breve apparizione di Ducezio nella storia siciliana.
Per la soluzione di tale enigma ci vengono in soccorso le ricerche da noi precedentemente condotte sulla lingua parlata dai siculo-sicani e sulla loro toponomastica, oltremodo significativa dal momento che il nome conferito da queste popolazioni alle città obbediva all’intento recondito, dal carattere magico-religioso, di sancire un patto o almeno un legame tra dio, l’uomo e il territorio. Abbiamo infatti imparato che l’uomo antico viveva la vita terrena come una continuità visibile di quella invisibile dell’al di là, pertanto ogni suo atto, ogni suo pensiero entrava in relazione con parti del mondo ultra terreno. In relazione a quanto affermato sulla toponomastica non possiamo non entrare subito nel merito di ciò che tocca intimamente noi Siciliani. Non possiamo, cioè, non chiederci cosa significasse il nome che i Sicani diedero alla terra che abitarono ininterrottamente per migliaia di anni, nel periodo che va dall’ultima glaciazione, circa dodicimila anni fa, fino all’arrivo dei Greci che, come gli Americani fecero coi Pellerossa, gli Spagnoli con gli Atzechi, i Romani con gli Etruschi, ne cancellarono completamente la cultura, sovrapponendovi in parte la propria ed in parte adattandola alla propria visione del mondo.
Si pensa che il nome Trinacria fosse stato dato alla Sicilia dai Greci, ma l’etimo è chiaramente sicano visto che esso risulta formato dall’unione dei lessemi tri, an e akara cioè rispettivamente: tre (con riferimento ai tre lati del triangolo siciliano), avo e campo, terreno, territorio, area circoscritta (sulla interpretazione della lingua sicana si vedano i nostri precedenti articoli, in particolare l’articolo: Jam akaram… la lingua dei Sicani). Il termine Trinakria, pertanto, significa “le tre terre dell’Avo”, cioè del capostipite divinizzato del popolo sicano. In base alle nostre ultime ricerche in termini di geometria sacra, di cui i Sicani non erano meno edotti di Egizi, Babilonesi, Sumeri, riteniamo che il lessema Trinacria, più che indicare tre territori, intendesse fare riferimento ai tre lati del triangolo che circoscrivevano tutto il territorio. Infatti non v’è dubbio che, in origine, il territorio appartenente all’Avo fosse l’intera Sicilia; tant’è vero ciò che l’isola veniva denominata, oltre che Trinacria, anche Sicania, da sich, sé, e ahn, antenato. L’idea che la Sicilia fosse stata considerata dai Sicani un possedimento atavico ereditato dall’Avo divinizzato, dal padre della stirpe sicana, venne senz’altro accolta dai Greci che si insediarono in Sicilia, salvo fare proprio il mito. Infatti, nel mito greco, è il dio greco Zeus che dona la Sicilia alla dea Proserpina, in occasione delle nozze di questa con Plutone. Non sorprenderà i nostri attenti lettori, ormai edotti circa le affinità etniche e culturali che intercorrevano tra Sumeri e Sicani, la somiglianza tra il mito sicano-greco e la mitologia sumera, nella quale il dio Anu dona la propria reggia di Sumer e il territorio ad essa afferente alla nipote Innanna ( vedasi l’articolo Un dio tra il Simeto e l’Eufrate).
Tornando alla città Trinacria, con il riferimento alla quale abbiamo aperto questo nostro saggio, notiamo che l’unico storico che ne attesta l’esistenza è Diodoro, il quale ne colloca le vicende nel V sec. a.C. Il carattere mitico del racconto di Diodoro a proposito di Trinacria, ricorda il mito cui fa cenno Platone nel Timeo in riferimento alla città di Atlantide. Trinacria, nel racconto dell’agirese, sorge e sparisce in un batter d’occhio, dopo aver compiuto imprese titaniche; ciò induce a pensare che Diodoro avesse mal compreso il valore simbolico e semantico racchiuso nel nome Trinacria, con il quale non veniva indicata una città ma piuttosto una lega, dal carattere sacro, stipulata da tre città o territori o anfizioni, che si configuravano come centri di forza, potenze spirituali, come fa pensare anche il nesso consonantico kr, contenuto nel nome Trinacria, che in antico germanico significa “forza, potenza”.
Tale lega, d’ordine religioso-militare, nata al fine di osteggiare l’avanza anti tradizionale dei Greci, fu stipulata, a nostro motivato parere, dalle tre città siculo-sicane detentrici della tradizione degli antenati. I territori delle tre città avrebbero dovuto riprodurre in terra sicula la triade divina Adrano-Etna-Palici ossia padre-madre-figli; i condottieri-sacerdoti a capo della lega si riproponevano pertanto di ricostituire l’antica famiglia, cioè il popolo sicano, la cui esistenza ed unità veniva ulteriormente minata dall’insaziabile avidità dei tiranni greci. Sulla base degli studi condotti sulla cultura e religiosità sicana, documentati dalle pubblicazioni effettuate in questo pregevole sito, riteniamo che le tre città custodi della tradizione e paladine della rinascita spirituale fossero: Adrano (allora chiamata ancora col nome di Innessa\Etna), sede del padre degli dèi (Adrano, da Odr-ano, significa “il furore dell’avo”); Erbita, sede terrena ove veniva coltivata l’eredità tradizionale dell’Avo, che si perdurava attraverso il grembo della madre (Erbe significa erede, discendente); ed infine Palikè, sede dei “signori” ( Baal ) figli del dio Adrano, diventata il capoluogo militare dei siculi. Riteniamo altresì che i sacerdoti-guerrieri, templari ante litteram, responsabili della stipula del patto sacro tra le città, tracciando un triangolo ideale che univa le tre città, avessero individuato e circoscritto geograficamente il cuore pulsante della religiosità sicana.
Questo triangolo territoriale – assimilabile al cerchio magico con cui Romolo, nel racconto plutarcheo, cinse Roma - avrebbe dovuto contenere la potenza evocativa capace di trattenere il furore divino e costituiva una porzione, in scala ridotta, del triangolo sacro rappresentato, in un tempo lontano, dall’intera isola, al tempo in cui era denominata Sicania, prima che i Cartaginesi e i Greci sottraessero ai Sicani gran parte di questo sacro suolo, profanandolo. Il nome Trinakria, ripreso dai nostri tre principi-sacerdoti, dovette indicare perciò, nel periodo storico in cui Diodoro Siculo colloca il suo racconto, cioè il V sec. a.C., non una città, nominata peraltro soltanto dallo storico agirese, ma piuttosto una porzione di territorio consacrato alla causa anti greca e compreso all’interno dell’area triangolare delimitata dalla perduta città di Erbita\Erbesso (sita tra Enna ed Agira e vicina all’attuale città di Assoro, forse in prossimità di Leonforte), Adrano e Palikè. Non è forse un caso che nello stemma della cittadina di Assoro, per inconscia o smarrita memoria di quanto sopra affermato intorno ai tre territori, siano rappresentati tre monti, due dei quali sono della medesima altezza, il terzo visibilmente più basso degli altri due, quasi a rappresentare i tre angoli di un triangolo isoscele.
La triscele o trinacria fu, del resto, una simbologia sicana utilizzata millenni prima l’arrivo dei Greci in Sicilia e prima dell’insediamento stabile dei Cartaginesi ad occidente dell’isola; essa, con le sue tre gambe di uguali dimensioni, indica i tre lati del triangolo e allude alla presenza dell’originaria armonia del territorio siciliano, andata perduta a partire dall’arrivo dei Greci. I tre monti dell’emblema di Assoro, le tre gambe della trinacria, che si può ammirare su un vaso del XIII secolo a.C. rinvenuto a Palma di Montechiaro, le tre spirali che vengono riprodotte nel mondo celtico, non sono altro che simbolici riferimenti alla sacra triade padre-madre-figli ovvero, in territorio sicano-siculo, Adrano-Etna-Palici.
TRE TERRITORI,TRE CASTE SACERDOTALI, TRE PRINCIPI
Tre territori, tre caste sacerdotali, tre principi giganteggiano dunque nel breve ed esaltante scorcio di storia sicula che va dal 460 a.C., anno in cui viene alla ribalta il duce siculo Ducezio, fino al 440 a.C., anno della sua morte: Ducezio, principe di Palikè, Arconide, principe di Erbita e il principe-sacerdote degli Adraniti. Il motivo per cui non si conosce né il nome né le azioni del pontefice adranita alleato di Ducezio e Arconide ci pare chiaro. Quattordici anni prima dell’ascesa militare di Ducezio, la prestigiosa città di Adrano, allora chiamata Etna, faceva parte della sfera d’influenza politica e militare del tiranno siracusano Jerone. Il tiranno, posto l’assedio alla città di Etna, riuscì a concordare col senato cittadino la presenza di una guarnigione militare siracusana dislocata nella sua acropoli e la rinominazione della stessa in Innessa, condizione indolore per gli Etnei, essendo Innessa l’antico e precedente nome della città (contemporaneamente il tiranno ribattezzava Catania con il nome di Etna). Dunque, dal momento che Adrano (così d’ora in poi chiameremo la nostra città), a partire dal 476 a.C., è posta sotto il controllo politico e militare di Jerone, si comprende come il pontefice massimo adranita non potesse interagire apertamente con i capi siculi Arconide e Ducezio. A loro volta i due condottieri dovevano stare attenti a non rendere palesi i rapporti e il nome del loro interlocutore adranita, onde evitare di sottoporlo alle vessazioni del tiranno. La cacciata della guarnigione siracusana dalla città di Adrano rimaneva, nei programmi militari di Ducezio e Arconide, la priorità. Non è casuale che la città fu tra le prime, subito dopo Catania, ad essere liberata; rinominata Etna, avrebbe dato, da quel momento in poi, un notevole contributo alle operazioni belliche della coalizione sicula, con conseguente liberazione di altre città sicule soggette ai siracusani e soprattutto espansione nei territori di pertinenza politico militare agrigentina e cartaginese. A tal punto divenne temibile tale coalizione che gli Agrigentini e i Siracusani, ostili in quel frangente storico, decisero di appianare i dissidi, consapevoli che solo una loro coalizione avrebbe potuto arrestare la travolgente avanzata sicula.
Dopo la disfatta delle forze militari sicule, avvenuta nel 450 a.C., data in cui si colloca la romantica fine della città di Trinacria descritta da Diodoro, Adrano torna ad entrare sotto la sfera d’influenza siracusana, come attesta Tucidide, il quale narra che nel 414 a.C. l’acropoli degli Inessei veniva occupata da un esercito siracusano. Tuttavia il controllo, da parte di Siracusa, su Adrano-Inessa-Etna dovette essere piuttosto blando, finalizzato forse più a riscuotere i tributi piuttosto che a un controllo militare sul territorio, visto che nel 405 a.C. Dionigi il Vecchio si ripresenta sotto le sue ciclopiche mura ad assediarla. Si noti che la data in cui Dionigi assedia Adrano, rinominata Etna da Ducezio, coincide con la data in cui il tiranno siracusano pone l’assedio anche a Erbita\Erbesso. Si dovrebbe collocare durante la fase di questi due assedi la trattativa tra il tiranno e il senato delle due città, che prevedeva la rinominazione di Erbesso in Erbita ed Etna in Adrano. Dunque, in questa occasione dovette maturare nelle due città una divergenza di opinioni, culminata in un’insanabile rottura, tra la casta sacerdotale, intransigente e contraria alle richieste del tiranno, e l’organo politico cittadino che si dimostrò invece più disponibile al dialogo con Dionigi il Vecchio. Fu in seguito alle suddette insanabili divergenze che i pontefici, con il loro seguito, abbandonarono le rispettive città per fondarne una nuova, che chiamarono Alesa (alle hass ovvero tutti contro… il tiranno) città nella quale, come primo atto dovuto, in nome della coerenza e della perdurante tradizione siculo\sicana, i due pontefici innalzarono un nuovo tempio all’Avo, Adrano.
Francesco Branchina