COLONIZZAZIONE GRECA E FONDAZIONE DI SIRACUSA
La colonizzazione greca, sviluppatasi fra l’VIII ed il VI sec. A. C., portò la civiltà greca in una vasta area dell’ Italia meridionale ed in Sicilia. Di questo fenomeno ci sono rimaste numerose e preziose testimonianze costituite dai templi, dai teatri, dalle mura di fortificazione, dalle statue, dalle ceramiche, dalle monete, ecc.
“La parola greca da noi abitualmente tradotta“colonia“ è apoikia, che significa “emigrazione… ciascuna di esse (“colonie”) era una comunità greca indipendente, non una colonia nel senso tradizionalmente attribuito alla parola. E siccome il movimento era una risposta a difficoltà demografiche e agricole, le nuove comunità stesse erano insediamenti agricoli, non centri commerciali (a differenza delle colonie fenicie dell’occidente ).
Per la stessa ragione gli aristocratici della maggiore fra le nuove comunità, Siracusa, erano chiamati Gamoroi,“ coloro che si spartiscono la terra, i proprietari fondiari“ (mentre gli indigeni ridotti in schiavitù e comunque i lavoratori della terra erano chiamati Kyllirioi). Le relazioni fra la colonia e la città madre non avevano mai una base commerciale né altrimenti imperialistica, proprio perché le “colonie” erano indipendenti fin dall’ inizio, politicamente ed economicamente, nel complesso esse mantenevano per lunghi anni relazioni strette e amichevoli con la città madre. (Finley, Gli antichi Greci, Einaudi, 1965 ).
Ma che cosa induce tante migliaia di persone ad abbandonare la Grecia, ad emigrare e fondare nuove città lontano dalla loro terra d’ origine ?
Con il passaggio dai regimi monarchici a quelli aristocratici, le terre finirono in mano dei più ricchi ed i poveri diventarono sempre più poveri.
Uno dei principali motivi della colonizzazione fu appunto quello di smaltire in qualche modo l’eccessivo numero dei contadini inurbati ed in ogni caso settori eccedenti e malcontenti della popolazione.
Verso la metà dell’ VIII secolo a. C. comincia questa fuga dalla Grecia e la fondazione delle colonie greche in Sicilia e nell’ Italia meridionale.
I luoghi in cui più spesso vengono fondate le colonie sono quelli in cui esistevano già degli scali commerciali. Spesso le prime colonie fondarono a loro volta delle altre città.
Quasi sempre la città madre forniva ai coloni i mezzi necessari e designava il capo della spedizione (l’ecista) che poteva anche svolgersi in diverse fasi e talvolta veniva consentita dalle popolazioni autoctone dietro qualche compenso, mentre altre volte si creavano dei rapporti conflittuali.
La seconda delle città greche in Sicilia fu Siracusa, fondata da un gruppo di cittadini di Corinto guidati dall’ecista Archia verso il 732 a. C.
Sulla storia della fondazione di Siracusa, Strabone, che visse 700 anni dopo il fatto, riferisce che “Archia, navigando da Corinto, fondò Siracusa circa nello stesso periodo in cui furono fondate Nasso e Megara… Archia, continuando nel suo viaggio, incontrò alcuni Dori… che si erano separati dai coloni di Megara; li prese con sé e fondarono insieme Siracusa”.
Di solito le città venivano costruite secondo una pianta ortogonale, cioè con strade ( piuttosto strette ) che si incrociavano ad angolo retto. Il centro della città era costituito dall’Agorà, una piazza in cui si svolgevano tutti gli affari più importanti.
Gli artisti, architetti, scultori, pittori, che operarono nelle città italiote, di solito, replicarono i modelli stilistici usati nella loro città d’ origine, ma spesso seppero apportare a questi modelli delle interessanti innovazioni.
V. Accarpio
I PERSONAGGI:
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Mosco di Siracusa (II secolo a.C.), poeta. Gli sono attribuiti alcuni frammenti di componimenti pastorali ed erotici di ispirazione teocritea, tra i quali in particolare l'epillio Europa, in cui viene narrata la nota favola di Zeus trasformatosi in toro per amore della fanciulla di Tiro, e l'idillio Eros fuggitivo, nel quale si racconta della promessa, fatta da Afrodite, di una notte d'amore a chi le avesse riportato vivo il figlio scomparso. Degli interessi retorici e degli studi grammaticali di Mosco ci è pervenuto soltanto il titolo di una sua opera, Sulle parole rodie.
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Gelone (Gela 540 ca. - Siracusa 478 a.C.), tiranno di Gela (491-485 a.C.) e di Siracusa (485-478 a.C.). Comandante della cavalleria di Ippocrate, precedente tiranno di Gela, gli succedette nel 491 a.C. Nel 485 a.C., approfittando di lotte interne a Siracusa, si impadronì anche di questa città, lasciando il governo di Gela al fratello Gerone I. In breve tempo Gelone divenne potentissimo ed estese il suo dominio su gran parte della Sicilia orientale. Nel 481 a.C. durante la seconda guerra persiana, Atene e Sparta gli chiesero aiuto contro i persiani; Gelone accettò pretendendo però il comando dell'esercito, condizione che non venne accolta. Nel 480 a.C. sconfisse i cartaginesi che, intervenuti col pretesto di appoggiare l'ex tiranno di Imera, Terillo, nella riconquista della città, minacciavano in realtà l'egemonia sull'isola delle città greche alleate di Siracusa e Agrigento. La vittoria di Imera rafforzò invece l'influenza sulla Sicilia di Gelone, che morì due anni dopo, lasciando Siracusa al fratello Gerone I di Gela.
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Agatocle (? 360 ca. - Siracusa 289 a.C.), tiranno di Siracusa (316-289 a.C.), assunse forse nel 304 a.C. il titolo di re. Proseguì la strategia offensiva siracusana contro i cartaginesi, dai quali venne sconfitto a Ecnomo nel 310 a.C.; portò quindi la guerra in Africa, minacciando la stessa Cartagine, con la quale dovette però patteggiare la pace. La sua influenza si estese all'intera Sicilia, a eccezione di Agrigento. Per sua volontà, alla sua morte il governo della città venne affidato al popolo siracusano.
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Gerone II (Siracusa 306-215 a.C.), re di Siracusa (265-215 a.C.). Di oscure origini, mascherate poi simulando un'illustre discendenza da Gerone I, fu luogotenente di Pirro nelle guerre contro i cartaginesi di Sicilia; assunse successivamente il comando dell'esercito siracusano, impadronendosi di fatto della città. Nemico dei mamertini, i mercenari campani che avevano occupato Messina, nonostante un primo insuccesso li sconfisse a Milazzo nel 265 a.C., dopodiché venne acclamato re di Siracusa. Quando nel 264 a.C. i romani intervennero a Messina in favore dei mamertini (nella prima guerra punica) Gerone si alleò dapprima con i cartaginesi per contrastare l'intervento romano, per poi (263 a.C.) patteggiare con i romani stessi un trattato a durissime condizioni economiche, che vennero condonate solo nel 248 a.C. Da allora fu fedele a Roma, soprattutto in chiave anticartaginese, pur mantenendo buoni rapporti con altri sovrani, in particolare i Tolomei d'Egitto. Sovrano illuminato, favorì le arti e le lettere e instaurò un sistema tributario (lex hieronica) tanto efficiente che i romani stessi lo imitarono. Gli successe il giovane nipote Geronimo.
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Teocrito (Siracusa 310 ca. – 250 ca. a.C.), poeta, creatore del genere pastorale. Poche sono le notizie biografiche, che perlopiù si ricavano dalle sue opere: nacque a Siracusa, dove trascorse la giovinezza, e visse in questa città probabilmente fino al 275-274 a.C., quando compose un idillio intitolato Le Grazie con il quale si rivolgeva a Gerone II per ottenerne il favore e la protezione. Lasciò poi la patria e si trasferì ad Alessandria, dove fra il 274 e il 270 a.C. scrisse l’Encomio a Tolomeo, carme dedicato al re d’Egitto Tolomeo II Filadelfo di cui esaltava la generosità. Entrò anche in contatto con Callimaco, di cui condivise la poetica (come è attestato dall’idillio Le talisie), senza tuttavia cimentarsi come lui nell’attività di poeta-filologo. Trascorse il resto della vita fra Alessandria e l’isola di Kos, notevole centro culturale, patria di poeti famosi come l’elegiaco Fileta. Rimane sconosciuto l’anno della morte, che tuttavia si colloca con certezza dopo il 260 a.C.
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Gerone I (? - 466 a.C.), tiranno di Siracusa (478-466 a.C.), successe al fratello Gelone. Gerone era conosciuto per il suo valore militare e prima dell'ascesa al trono si era distinto nella battaglia di Imera nel 480 a.C. Fece di Siracusa la principale città siciliana e fondò la città di Etna (475 a.C.). La sua vittoria sugli etruschi a Cuma, nel 474 a.C. preservò l'indipendenza dei coloni greci in Italia. Nel 472 a.C. l'esercito siracusano sconfisse Trasideo, re di Akrágas (la moderna Agrigento) e Gerone divenne il signore supremo della Sicilia. Era noto per la sua crudeltà, ma anche per la protezione accordata a poeti e filosofi.
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Archimede (Siracusa 287-212 a.C.), matematico e fisico. Fu uno dei più grandi studiosi di matematica dell'antichità, si interessò di diversi settori della fisica e fu un geniale inventore. Studiò ad Alessandria d'Egitto, dove fu forse allievo di Euclide.
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Dionisio il Vecchio (432-367 a.C.), tiranno di Siracusa dal 405 al 367. Di umili origini, fu un funzionario governativo prima di conquistare il potere illegalmente. Nel 404 strinse una pace con i cartaginesi, che avevano occupato quasi tutta la Sicilia; intraprese quindi una serie di campagne militari sul territorio siciliano e nella Magna Grecia, tentando, a partire dal 398, di cacciare i cartaginesi dall'isola, riportando inizialmente alcuni successi. Servendosi dell'aiuto di mercenari, Dionisio fece di Siracusa la città più potente dell'isola.
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Epicarmo (540 ca. a.C. - 450 ca. a.C.), commediografo greco, nato secondo la tradizione a Kos, secondo altre fonti a Siracusa, certamente cresciuto a Megara, in Sicilia. A partire dal 484 a.C. Epicarmo visse a Siracusa, dove godette del mecenatismo di Gelone e Gerone I.
Non volendo continuare ad allungare questa lunga lista, mi limito ad aggiungere solo alcuni dei personaggi illustri ospitati dalla città di Siracusa:
Simonide di Ceo
Platone
Lisia
Bacchilide
Pindaro
Calamide
Chi di voi avrà la fortuna di visitare questa città, non deve assolutamente perdersi una sosta alla mitica pasticceria BRANCATO sita in via Grottasanta, 219.
Iniziamo con Castello Eurialo
Fatto costruire da Dionisio il Vecchio tra il 402 e il 397 a.C., prende il nome dal greco Euryelos per la sua forma di "chiodo dalla grossa testa". Occupa un'area di 15.000 mq. e si suddivide in due parti: il mastio con gli alloggiamenti militari e il recinto.
Presenta tre prospetti: uno occidentale che rappresenta anche la parte frontale del castello, mentre gli altri due, meridionale e settentrionale, si uniscono formando la punta del "chiodo", rivolta ad est verso il mare. Su quello frontale campeggiano cinque torri quadrate, alte probabilmente all'epoca della loro costruzione quindici metri, dietro le quali macchine belliche, le baliste, permettevano di lanciare sassi e altri materiali offensivi sui nemici.
Antistanti alle torri si possono ancora notare i resti di un cuneo, le cui mura rappresentavano un ulteriore elemento difensivo e tre fossati. Il primo lungo sei metri e profondo quattro è, oggi, completamente interrato. Il secondo, posto a ottantasei metri dal primo, ha una lunghezza di cinquanta metri, una larghezza di ventidue e una profondità di sette. Il terzo fossato, infine, a ridosso delle torri è lungo ottanta metri, largo diciassette e profondo nove. E' il più importante perché collega tutti i reparti difensivi.
La fortezza era provvista di ingegnose opere in grado di assicurare una tenace resistenza. Lungo il fianco settentrionale si può, infatti, ammirare una porta d'accesso, protetta con mura ad imbuto, nascosta da altre disposte trasversalmente, mentre a sud ci sono i resti di tre pilastri che sostenevano il ponte levatoio.
La presenza di tre grosse cisterne e le studiate soluzioni difensive, come le doppie mura a sud, fanno intuire i lunghi periodi di resistenza che questa fortezza poteva garantire.
L'orientamento del Castello, disposto prevalentemente lungo l'asse est-ovest, era stato studiato in modo tale che i difensori, almeno sul fronte principale, non avessero il sole negli occhi al mattino, quando presumibilmente i nemici, dopo una notte di riposo, avrebbero potuto tentare un nuovo assalto. Nel pomeriggio la stanchezza poteva consigliare agli assedianti di desistere, mentre di notte i tre fossati sicuramente costituivano un ottimo deterrente. Nella fioca luce notturna, infatti, essi rappresentavano trappole mortali.
All'interno del Castello, dietro le cinque torri, un cortile di epoca bizantina fungeva da caserma. La truppa nel sicuro delle gallerie e dei camminamenti poteva spostarsi, grazie ad un ingegnoso sistema di scale e di gallerie lungo 480 metri, con la massima celerità da un punto all'altro a secondo delle necessità difensive.
La necessità storica
Per una città come Siracusa posta sul mare, l'arrivo improvviso di una flotta nemica poteva rappresentare un pericolo gravissimo, magari non più in grado di essere combattuto.
Se per terra mura poderose potevano difendere la città e dare modo ai suoi abitanti di resistere anche per lunghi periodi, un nemico agguerrito che si fosse presentato all'improvviso nel Porto Grande difficilmente sarebbe stato rintuzzato e ricacciato in mare aperto o distrutto sul posto.
La via del mare, inoltre, poteva rappresentare l'ultima possibilità di fuga nei confronti di un nemico che per terra avesse travolto le ultime difese.
Era, perciò, indispensabile scrutare soprattutto l'orizzonte marino per prevenire eventuali attacchi e organizzare una migliore difesa. Ortigia, la piccola isola sulla quale Siracusa era stata fondata nel 734 a.C. da coloni corinzi, alta meno di cinquanta metri sul livello del mare, non poteva garantire che la visione di poche miglia marine. Ecco, perciò, l'impellente necessità di avere un posto d'osservazione sufficientemente alto e sufficientemente vicino alla città.
Dalla Marina, l'attuale passeggiata in Ortigia, lo sguardo abbraccia solo l'ampio e luminoso panorama di questa splendida insenatura, partendo proprio dalle ripide coste del promontorio, denominato Capo Murro di Porco, poste di fronte al Castello Maniace, estremo lembo orientale dell'isola.
Fu questo notevole restringimento all'uscita del porto che, grazie ad alcune navi legate tra loro da potenti catene, permise ai Siracusani di chiudere la via di fuga alla flotta ateniese, arrogantemente alla fonda in quelle acque, e di distruggerla nel 413 a.C. durante la seconda guerra del Peloponneso.
La vista prosegue lungo la linea sottile dei lidi sabbiosi, scivolando tra i grigi canneti fino alle foci contigue dell'Anapo e del Ciane, orlate dai ciuffi verdi degli ombrellati papiri.
L'entrata nel tranquillo e sicuro porto doveva rappresentare un momento felice ed esaltante per gli equipaggi, stanchi per giorni o settimane di navigazione. Siracusa non offriva solo uno dei migliori rifugi naturali, tra l'altro rari, lungo la costa orientale della Sicilia; la città, capitale della Magna Grecia era, infatti, uno dei più importanti empori commerciali del Mediterraneo e, quindi, piena di attrattive di tutti i generi.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che Siracusa rappresentava il maggiore avamposto greco verso occidente e che manteneva con la madrepatria intensissimi rapporti culturali, politici ed economici.
Acque sicure dall'imperversare d'improvvise tempeste, specie nel periodo invernale, accoglievano legni greci o di altre azioni venuti a commerciare.
La città, grazie alla sua posizione e all'audacia dei suoi cittadini, riuscì a svilupparsi bene, raggiungendo il massimo splendore sotto il regno di Dionisio il Vecchio, durato dal 405 al 367 a.C..
La storia del Castello s'intreccia intimamente con la figura di questo tiranno, odiato e temuto personaggio della Storia, simbolo di cieco assolutismo, dispotismo e culto della persona, antesignano di Luigi XIV, il re Sole. Modelli che, purtroppo, sono stati copiati nel Novecento con risultati apocalittici nella loro brutale disumanità.
La storia del Castello Eurialo inizia, quindi, alla fine del V secolo con l'opera instancabile di Dionisio, tesa a ricostruire e potenziare le difese della città, soprattutto in vista dell'inevitabile scontro con i Cartaginesi. Essi, infatti, avrebbero sicuramente malvisto il tentativo espansionistico di Siracusa, progettato con l'intento di risalire la profonda china istituzionale ed economica in cui la città era caduta in seguito alle guerre contro Atene e per contrasti interni tra Ermocrate e Dione, sfociati praticamente in una guerra civile.
Soprattutto le difese lungo il versante settentrionale si erano dimostrate essere il tallone di Achille nella guerra contro gli Ateniesi per la loro scarsa consistenza. Demostene, il generale comandante l'esercito ateniese, aveva facilmente occupato per ben due volte, l'alto colle dell'Epipoli dal quale era poi sceso verso la città per cingerla d'assedio.
A sud Siracusa era protetta, invece, dalla Natura. Le paludi Lisimelie, oggi bonificate e note con il significativo toponimo di Pantanelli, rappresentavano allora con la loro presenza un serio ostacolo al rapido movimento di truppe e di macchine belliche, oltre al pericolo incombente della malaria.
Secondo lo storico Diodoro Siculo, Dionisio iniziò a rinforzare le difese proprio sul lato nord, facendo erigere in soli venti giorni con l'aiuto di sessantamila uomini un muro lungo oltre cinquemila metri, traendo i materiali necessari dal generoso territorio degli Iblei. Alle spalle del Castello Eurialo, a circa tre chilometri in prossimità del bivio per Priolo e Floridia, uno spettacolare scenario quasi ci suggerisce il luogo della cava dalla quale i Siracusani probabilmente trassero i mastodontici parallelepipedi di calcare, necessari per la grande opera.
Un grande anfiteatro naturale, infatti, formato da numerosi gradini, resti delle antiche falesie marine, preceduto da una larga zona pianeggiante, induce a questa affascinante considerazione.
Spesso la fantasia colma le lacune della Storia. Nelle vicinanze, poi, del luogo l'effettiva presenza di alcune cave, che ancora oggi traggono dalle visceri degli Iblei materiali utili per l'edilizia, accresce la sensazione e la voglia di rivivere con l'immaginazione eventi che si sono svolti in tempi molto remoti.
Naturalmente il muro, seppur poderoso, da solo non sarebbe bastato ad arginare l'assalto dei nemici, se lungo il suo svolgersi non ci fossero stati a supporto della sua difesa dei fortini. Essi erano collegati molto presumibilmente con la fortezza principale e cioè con il Castello Eurialo.
È bello rivivere, attraverso le parole di Diodoro Siculo (XIV 18,2-7) la descrizione della costruzione del muro settentrionale, lungo esattamente secondo le sue testimonianze 30 stadi attici, cioè 5580 metri, che congiungeva l'Epipoli al mare e a cui si sarebbe successivamente saldato il Castello:
«Avendo visto che durante la guerra con Atene la città era stata bloccata da un muro che andava da mare a mare, temeva, in casi analoghi, di venir tagliato fuori da ogni comunicazione con il territorio circostante: vedeva bene, infatti, che la località chiamata Epipole dominava la città di Siracusa. Rivoltosi ai suoi architetti, in base al loro consiglio decise di fortificare le Epipole con un muro, ancora oggi conservato nella zona intorno all'Exapylon (le " sei porte "). Questo luogo, rivolto a Settentrione, interamente roccioso e a picco, è inaccessibile dall'esterno. Desiderando che le mura fossero costruite con rapidità, fece venire i contadini dalla campagna, tra i quali scelse gli uomini migliori, in numero di 60.000, e li distribuì lungo il settore di muro da costruire. Per ogni stadio designò un architetto e per ogni pietra un mastro muratore, a ciascuno dei quali assegnò 200 operai. 6.000 gioghi di buoi erano impiegati nel luogo designato. L'attività di tanti uomini, che si applicavano con zelo al loro compito, presentava uno spettacolo straordinario. E Dionigi, per stimolare l'entusiasmo di questa moltitudine, prometteva grandi premi a coloro che avessero terminato per primi, specialmente agli architetti, poi anche ai mastri muratori, infine agli operai. Egli stesso, con i suoi amici, assisteva ai lavori per intere giornate, ispezionando ogni luogo e facendo sostituire quelli che erano stanchi. In breve, rinunciando alla dignità del suo ufficio, si riduceva a un rango privato, e assoggettandosi ai lavori più pesanti, sopportava la stessa fatica degli altri: ne nacque di conseguenza una grande emulazione, e alcuni aggiungevano anche parte della notte alla giornata lavorativa. Tale era l'entusiasmo di quella massa di lavoratori. Di conseguenza, il muro fu terminato, al di là di ogni speranza, in 20 giorni: esso era lungo 30 stadi, e di altezza proporzionata, e così robusto da esser considerato imprendibile. Vi erano alte torri a intervalli frequenti, costruite con blocchi lunghi 4 piedi, accuratamente giuntati».
La visita del Castello
Ancora oggi, essa è un viaggio a ritroso nel tempo, capace di offrire intense emozioni. Costruito in un tempo relativamente breve, vista la vastità dell'opera, dal 402 al 397 a.C. proprio sull'Epipoli (dal greco "sopra la città") ad ovest di Siracusa, distante appena otto chilometri da Ortigia, è la più grande opera di ingegneria militare della Magna Grecia, il coronamento delle opere difensive volute da Dionisio, che riuscì così a saldare le mura settentrionali con quelle ad ovest della città, per uno sviluppo complessivo di circa trentadue chilometri.
La sua costruzione, come testimoniano i numerosi resti di abitazioni vicine, permise lo sviluppo di un grosso quartiere, l'Epipoli appunto, che insieme agli altri quattro Tyche, Neapolis, Ortigia ed Acradina, rappresentava l'intero territorio urbano, ampio e ben articolato. Secondo certe stime si valuta in oltre trecentomila persone la popolazione complessiva di allora.
Come nel nostro Medioevo, vicino al castello si raccolse una fitta popolazione. In tempi dove i nemici vittoriosi non andavano tanto per il sottile e, una volta effettuata la conquista, si lasciavano andare a saccheggi e massacri, la gente si sentiva protetta nella propria esistenza, nei commerci e nel proprio lavoro dalla rassicurante presenza delle armi. Senza contare che la fortezza, in caso di pericolo, avrebbe potuto anche accoglierli.
Provenendo da Ortigia e salendo verso l'Epipoli si ha la gradevole sensazione di una vista che si allarga, dominando un territorio sempre più esteso e un orizzonte sempre più lontano.
Superato il luogo dove si era sviluppato l'antico quartiere di Neapolis, sopra il Teatro Greco, ed una postazione dell'Aeronautica ormai in disuso, la strada ci conduce ad una delle porte di accesso alla città, lungo le mura occidentali, vicinissima al Castello Eurialo il cui profilo perimetrale meridionale vediamo torreggiare poco più in alto.
I resti delle vecchie mura accanto alla porta ci danno già l'idea del valore di questa cinta muraria. Alberi di ulivo, mandorli e carrubi, oltre a lentisco, lecci ed euforbie abbelliscono, ombreggiandolo, il ripido versante collinare che sale fino al fianco meridionale del castello.
Un ultimo chilometro, ancora alcuni brevi tornanti e finalmente si entra nello stretto difficile parcheggio. L'ingresso al sito, peraltro gratuito, è ombreggiato da un gruppo di pini a destra che nella calura del primo pomeriggio rappresentano un piccolo refrigerio. Custodi seduti e annoiati che sembrano far parte da secoli del paesaggio, nella loro discrezione, quasi non ti degnano di uno sguardo.
Superata anche questa piccola oasi di verde siamo finalmente di fronte a questo meraviglioso scenario. Se le "parole" in un celebre libro di Carlo Levi "sono pietre", parafrasando quel titolo, in questo luogo si può affermare che le pietre sono ridiventate parole, messaggi consegnati alla Storia dalla moltitudine di uomini che in questo posto vissero e morirono.
Le cinque torri si ergono quasi a puntellare un cielo pieno di una luminosità che ti pervade fino in fondo e ti cattura, facendoti sentire come una lucertola che avanza a passi misurati, crogiolandosi sui sassi scaldati dal sole. Di un biancore abbagliante ti si para davanti come una corazzata pronta a sparare, adagiata sul dorso del crinale che sale dal mare.
Da questa posizione s'intravede a destra la bassa valle dell'Anapo, mentre a sinistra le brutture industriali di Priolo ed Augusta deturpano un paesaggio meraviglioso, costituito dalla linea di costa che s'inarca verso il Golfo di Catania con l'Etna, maestoso e incombente sulla città. Ancora più in fondo la costa alta di Taormina e nei giorni di vento è visibile perfino la striscia sottile della Calabria.
È bello sostare ad ammirare gli spalti e i fossati antistanti. Tutta la visita del Castello, già di per sé faticosa per i continui saliscendi, andrebbe fatta senza premura, soffermandosi nei numerosi punti dove il gioco delle forme e gli spazi dilatati e immensi del cielo e della terra offrono sensazioni di profondo benessere.
Lontani da rumori, nel silenzio di queste mura si coglie la profonda sensazione di un benessere che ti pervade, senti solo la brezza che sale dal mare e fa oscillare i teneri culmi delle erbe già secche. I cardi spogliati ed arcigni sembrano soldati chiusi nelle loro armature di bronzo e nelle forme scultoree ed aguzze dei loro steli e delle loro spine.
Penetriamo nel castello attraverso una porta presente sul fianco nord al livello del terzo ed ultimo fossato, il più grande, e ci sentiamo subito sprofondati in una realtà facilmente immaginabile.
Un corridoio, parallelo al fossato e scavato nella viva roccia a sinistra, mostra per tutta la sua lunghezza più finestre d'accesso con spioventi litici che, ombreggiando l'interno, permettevano al difensore nascosto di colpire e infilzare il nemico che, abbagliato dal sole, si fosse imprudentemente parato davanti.
Ad un capo del corridoio a sinistra, l'inizio di una buia galleria, scatena la nostra fantasia su possibili passaggi segreti. Continuiamo a percorrerlo fino a quando, sempre sulla sinistra, un'altra galleria stavolta in salita ci attira con la sua fioca luce solare giù in fondo.
Nella tenera ma solida roccia calcarea i percorsi tortuosi permettevano di organizzare trappole ed agguati contro improvvidi nemici. Questa galleria, infatti, ci conduce in uno stretto pianoro, racchiuso tra le due fila di mura, poste sul versante meridionale della fortezza.
I soldati nemici che fossero arrivati qui allo scoperto, presi dall'impeto, si sarebbero trovati accerchiati da difensori agguerriti e determinati. Sfruttando una prominenza della parete rocciosa, una porta nascosta sul fondo permetteva ad altri soldati di completare l'accerchiamento.
Tutti i percorsi erano stati progettati e costruiti nel tentativo ovvio di ostacolare il nemico, cercando di canalizzarne l'avanzata, spingendolo verso luoghi ristretti facili da difendere.
Attraverso questa porta raggiungiamo il recinto superiore e da lì il centro della fortezza a ridosso delle cinque torri che, seppur dirute, rimangono fedeli testimoni di un passato glorioso.
Qui non è difficile immaginare le grida e le voci che accompagnavano, inevitabilmente, gli assalti dei nemici, tesi ad occupare una fortezza che nel loro tentativo di conquistare la città, avrebbe sempre rappresentato una spina nel fianco, potendo essa contenere tremila soldati e seicento cavalieri.
Percorriamo nel recinto l'ultimo tratto che ci porta verso la sua estremità, la punta sottile del "chiodo", rivolta ad est verso Siracusa e il mare. Sembra la prua di una nave che naviga in un mare di storia. Man mano che ci si avvicina all'estremità, la vista s'allarga fino a dominare l'intera vallata che circonda la città e il suo porto che si stagliano in fondo all'orizzonte, testimoni di passate civiltà e speranze di future generazioni.
Tino Insolia
Castello Eurialo
teatro greco, Orecchio di Dionisio e...
Dopo la visita al Teatro Greco, adagiato sui fianchi del colle Temenite di Siracusa, scendiamo dalla sua sommità, ancora ebbri per la visione di mirabile bellezza di cui abbiamo goduto. Brevi e sinuosi tornanti ci sprofondano in un giardino ricco di variopinti oleandri, immersi tra i profumi di alcune piante, tipiche della flora mediterranea. I rami degli oleandri tra l'altro, disposti da ambo i lati come una guardia d'onore, sfiorandosi in alto sembrano descrivere una piccola galleria vegetale che ci avvolge con il suo respiro caldo e voluttuoso. Dopo poche decine di metri giungiamo ad una piccola radura.
L'impatto visivo suscita immediatamente una piena e profonda suggestione.
Ventitre metri di altezza per sessantacinque di lunghezza ed una larghezza che va restringendosi gradatamente dagli undici metri iniziali ai sei finali incidono profondamente la parete a strapiombo che si para di fronte ai nostri occhi.
Il nostro sguardo s'innalza per potere ammirare per intero questa fantastica visione, che assume le sembianze di una ferita nel tessuto verticale della tenera roccia sedimentaria.
Di colpo si è come proiettati indietro nel tempo con la sensazione precisa, se non fosse per il continuo via vai dei turisti, di vedere apparire da un momento all'altro sulla soglia il gigante Polifemo alle prese con l'astuto Ulisse.
Tutto si presta a questa omerica illusione, soprattutto il breve respiro del luogo, chiuso da alte pareti che lo rendono cristallizzato nel tempo e che hanno impedito la sua profanazione da parte dei profondi cambiamenti che hanno interessato, invece, le zone prospicienti il sito archeologico.
Nella sua arcaica e naturale bellezza questo luogo risplende, perciò, di un forte valore evocativo.
La nostra stessa ammirazione dovette colpire Caravaggio che nel 1608, nel corso della sua breve vita e durante il suo tormentato vagabondare, si trovò a visitare questo luogo, definendolo per l'evidente somiglianza antropomorfica l' "Orecchio di Dionisio", dando fiato così alla leggenda del famoso tiranno.
Si tratta, infatti, di una fenditura apparentemente naturale, tanto sembra armoniosamente inserita nel contesto ambientale, adornata all'esterno da piante di capperi e capelveneri. Le pareti che già si intravedono dalla radura antistante sono lisce, come levigate dalle mani di un gigante. Esse si snodano sempre lisce e sinuose, dando origine ad un movimento plastico di notevole e piacevole effetto estetico, conferendo a questo luogo fascino e mistero.
Questo "tempio" dove la Storia sembra richiudersi per celebrare i suoi miti e le sue leggende, può essere considerato a pieno titolo un monumento perché (e sveliamo un piccolo segreto) esso rappresenta in effetti l'aspetto finale di una cava dalla quale i Siracusani, in tempi successivi, hanno tratto il materiale servito loro per la costruzione di templi ed edifici pubblici e privati, la maggior parte dei quali splendono ancora di storia nei numerosi angoli della città.
Man mano che il lavoro di scavo ha proceduto e i materiali ottenuti sono stati portati via il piano inferiore della cava si è sempre di più abbassato, fino al livello attuale.
Chiunque lo ammira non può che condividere la definizione del pittore lombardo. L'aspetto esterno è di un enorme padiglione auricolare e il percorso interno assomiglia, per analogia, al tratto tortuoso che conduce al nostro timpano.
Ciò che ha sempre stupito e affascinato, oltre la forma, è stato l'effetto acustico che si produce all'interno della grotta, nata per azione dell'Uomo. Grazie alla disposizione curvilinea delle sue pareti (che si fondono alla sommità), all'altezza, alla profondità e alla natura delle rocce si ottiene un effetto acustico di notevole suggestione che amplifica ogni piccolo rumore. Perfino un brusio, un piccolo mormorio diventa chiaramente udibile a distanza.
Chi scrive, ricorda da adolescente il fragore simile ad un colpo di cannone, provocato dal battere del tocco di bronzo sulla base fissa, anch'essa dello stesso materiale, posti sul portone di legno massiccio che negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta limitava l'accesso al sito.
L'intero complesso archeologico, a dir la verità, era un luogo molto frequentato da studenti e non solo per motivi culturali. Alunni di diverse scuole e classi si ritrovavano, spesso, qui per bigiare in un luogo sicuro, al riparo da sguardi di genitori e insegnanti o meglio da "minacciate" interrogazioni o da compiti di greco e di matematica che non si sarebbe saputo come svolgere.
Secondo la leggenda il tiranno Dionisio faceva rinchiudere qui i prigionieri politici. Approfittando della particolare acustica s'era fatto costruire una casetta il cui pavimento era in comunicazione con la volta superiore della grotta. Ciò per ascoltare i loro discorsi e sventare eventuali complotti.
In effetti, una casetta esiste alla sommità del Teatro Greco, che sembra quasi evocare la leggenda, ma essa è solo l'ultima testimonianza di una serie di mulini che nei secoli passati utilizzavano la forza motrice dell'acqua del canale Galermi, sorgente a pochi passi da essi. Ricordiamo che essa alimenta dal V secolo a.C. fino ad oggi l'acquedotto di Siracusa.
Abbiamo detto in apertura che Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, con la sua fantasia lo definì l'Orecchio di Dionisio, avvalorando l'immagine di un tiranno crudele e molto sospettoso.
Parlare di questo monumento ci da quindi l'opportunità di tratteggiare la figura di Dionisio I, il Grande, tiranno di Siracusa a cavallo del V e del IV sec a.C. e più in generale su quest'ultimo termine, usato quasi sempre in maniera dispregiativa, come di persona caratterizzata da una profonda visione antidemocratica, uccisore delle libertà e della partecipazione popolare al governo della città.
Indubbiamente, tutti coloro che operarono per imporre la loro signoria erano mossi da una grande sete di potere. Molto ricchi e in grado di condizionare gli umori della plebe, avvalendosi di alleanze con altri potenti vicini, essi in genere comparivano quando la situazione democratica della città si deteriorava.
Molti, come purtroppo è avvenuto tante volte in seguito, auspicavano a questo punto la comparsa di un uomo forte che mettesse fine a disordini e degenerazioni, oltre che a rivendicazioni in ordine alla distribuzione delle terre e alla ricchezza più in generale.
Spesso i disordini erano provocati dagli stessi aspiranti tiranni.
Su Dionisio molto è stato scritto e io non pretendo certamente di esaurire un argomento così vasto, descrivendo in poche righe una figura così importante e complessa della storia siracusana. Egli compare al seguito di Ermocrate, quando questi aveva cercato nel 408 a.C. di penetrare con la forza in Siracusa, in seguito a rivalità con Diocle.
Ermocrate venne però ucciso e i suoi compagni banditi, tranne Dionisio ritenuto morto. Tre anni dopo le alterne vicende della guerra contro Cartagine, sprofondano Siracusa in una situazione di grave pericolo. Dionisio assume il potere grazie a dei mercenari e riorganizza la struttura politica dello Stato, favorendo all'inizio gli amici che lo avevano sostenuto.
Cinge di opere difensive la città, costruendo alte mura attorno ad Ortigia, l'isola che diventò la sua residenza fortificata. Appena pronto si mosse per riaffermare il dominio siracusano lungo la valle dell'Anapo, attaccando e distruggendo Erbesso (presso l'attuale Buscemi), spina nel fianco degli insediamenti greci, specialmente della fortezza di Acre (Palazzolo Acreide).
Con la politica del bastone e della carota tranquillizzò i suoi vicini, alleandosi nel frattempo con Sparta. Nell'anno 401 a.C. presso un santuario posto alle pendici sud-occidentali dell'Etna, fondò un insediamento militare che chiamò Adrano (Adernò).
Prevedendo la sicura reazione cartaginese con grande celerità si dedicò alla costruzione del Castello Eurialo, cioè a forma di chiodo, imprendibile fortificazione posta alla sommità dell'Epipole, un colle che, distante pochi chilometri da Siracusa, domina per lunghi tratti le coste e la bassa valle dell'Anapo.
Ancora oggi esistente, esso rappresenta una delle opere più ingegnose di arte militare, geniale esempio di difesa delle città greche.
Resa sicura la città, si dedicò ad un nuovo programma espansionistico. Grazie alle invenzioni dei suoi consiglieri militari, in particolare della catapulta, in grado di scagliare sassi a notevole distanza, e la costruzione delle quinqueremi, vere e proprie corazzate più sicure e veloci delle triremi, si sentì pronto per ridare a Siracusa prestigio, potenza e splendore. Dopo essersi assicurato alleanze o neutralità da parte delle principali città siceliote, dichiarò guerra a Cartagine nell'anno 397, riconquistando a Siracusa tutto il territorio precedentemente perduto.
Non pago di questo risultato continuò nel suo progetto imperialista e nel periodo immediatamente successivo conquistò parecchi punti strategici del Tirreno (tra cui l'isola d'Ischia) e dell'Adriatico (debellando i pirati), rendendoli mari sicuri e sotto il dominio delle flotte siracusane.
La vita di Dionisio andrebbe raccontata con maggiore approfondimento, perché ricca ancora di numerosi avvenimenti. Morì a 63 anni e la sua tirannia durata per ben 38 (405-367 a.C.) rappresenta il culmine della potenza siracusana, un periodo importante anche per la storia delle altre colonie greche in Italia. Siracusa, grazie a lui, divenne la più potente città della Magna Grecia.
Prototipo del tiranno crudele, la sua figura è stata nei secoli molto maltrattata: da Timeo a Cicerone, fino a Dante è un susseguirsi di accuse. Non ammetteva nessuno alla sua presenza che non fosse stato prima perquisito dalle sue guardie. A questa regola non sfuggivano nemmeno figli e nipoti e persino le mogli. Si faceva radere solo dalle figlie.
Non esitò a ordinare la morte di molti nemici, anche suoi concittadini, giustificando questi atti come doverosa sottomissione alla ragione di Stato.
So di essere sembrato troppo lungo a descrivere la sua figura ma sono sicuro che la visita dell' "Orecchio di Dionisio" evocherà ai più sensibili i palpiti di un'epoca irripetibile, per certi versi lontana dalla nostra sensibilità moderna ma, sicuramente, carica di fascino e di profonde radici culturali con le civiltà del passato.
Dionisio non riuscì a sconfiggere definitivamente Cartagine ma ne rallentò l'espansione, consegnando idealmente a Roma il compito di annientarla. Nel III sec a.C., infatti, Roma riprese con vigore la lotta contro i Punici, fino all'epilogo finale che tanto sarebbe piaciuto a Dionisio: Cartago delenda est e Cartagine delenda fu.
Tino Insolia
Il teatro greco di Siracusa
Sulla sommità del Teatro, secondo Cicerone, c’erano i santuari di Demetra e Kore e delle Muse. Eschilo vi rappresentò Le Etnee ed I Persiani. Ha un diametro di circa 140 metri e 67 ordini di gradini divisi in 9 settori da 8 scalette e, orizzontalmente da due ambulacri. Fu opera dell’architetto Damocopos, detto Myrilla. La parte più alta della cavea anzicché essere scavata nella roccia fu costruita con blocchi di pietra che, in seguito (XVI secolo) furono portati via per essere utilizzati in altre costruzioni. Il Teatro disponeva di alcuni tipi di macchine di scena.
I teatri greci più antichi che presentano una struttura simile a quello di Siracusa furono, in Grecia, quello di Eleusi e quello di Torico, entrambi del VII secolo a. C. In seguito si svilupparono forme più evolute: quale il teatro di Dioniso di Atene.
Le Latomie
A Siracusa esistono diverse cave di pietra calcarea che si cominciarono a scavare, probabilmente, poco dopo la fondazione greca della città e quindi dal 732 circa a. C. in poi. La parola latomia deriva da due parole greche: las= pietra e tèmnein= tagliare. Le latomie di Siracusa si trovano tra il Teatro greco e la Latomia dei Cappuccini. I blocchi di pietra che furono tratte da esse, per circa cinque milioni di metri cubi, vennero impiegati nella costruzione di templi, di opere di fortificazione e di edifici di uso civile. Dalla lettura di Tucidide apprendiamo che queste cave furono usate anche come carceri, infatti vi furono tenuti, in condizioni terribili, gli Ateniesi catturati nel 413 a. C., durante la guerra fra Atene e Siracusa. Tucidide racconta così le sofferenze di quei prigionieri ateniesi:
“Nelle cave di pietra i Siracusani nei primi tempi trattarono duramente i prigionieri. Essendo all’aperto, in molti tra le pareti ripide di un luogo ristretto, in principio li tormentava ancora l’afa e il sole; e viceversa, sopraggiungendo le notti fredde di autunno, questo sbalzo li disponeva a malattie. Per mancanza di spazio soddisfacevano i loro bisogni nel medesimo posto; e inoltre, ammucchiandosi lì stesso l’uno sull’altro i cadaveri di chi moriva per le ferite e per il cambiamento di stagione o cause simili, ne derivava un fetore insopportabile. S’aggiunga la sofferenza della fame e della sete, poiché a ciascuno di loro davano per otto mesi una cotila di acqua (=1/4 di litro ) e due cotile di grano.
Non fu insomma risparmiato loro nessun malanno che, una volta caduti in simil luogo, potesse affliggerli. Poi, tranne le truppe ateniesi, siceliote o italiote, tutti gli altri furono venduti.
Non è possibile dare con esattezza il numero complessivo dei prigionieri, ma non furono meno di settemila.
Risultò, questa, l’impresa militare ellenica più imponente di questa guerra e, a me sembra, anche di tutte le guerre elleniche della tradizione: la più gloriosa per i vincitori, la più fatale per i vinti.
Schiaccianti sconfitte in tutti i campi, terribili sofferenze di ogni genere: fu proprio quel che si dice una distruzione completa, che inghiottì flotta, esercito e ogni cosa; e pochi di molti rimpatriarono.
Tale fu la spedizione di Sicilia.” (da: Tucidide, La guerra del Peloponneso, trad. di P. Sgroi, Milano, Ispi)
La Latomia del Paradiso, a fianco del Teatro greco, comprende: l’Orecchio di Dionisio, la Grotta dei Cordari, la Grotta del Salnitro, la Latomia della Intagliatella e quella di Santa Venera. Non molto distanti si incontrano la Latomia Broggi e quella del Casale. Infine, molto vicino al mare, la Latomia dei Cappuccini.
L’“Orecchio di Dionisio” è un’ampia grotta artificiale di grandi dimensioni, profonda più di 60 metri, alta più di 20 e larga fino a circa 10 metri. Ha una sezione verticale di forma quasi triangolare ed una pianta che in qualche modo ricorda la chiocciola dell’orecchio umano. Nel punto più interno e più alto presenta un foro attraverso il quale, in virtù della particolarissima acustica capace quasi di amplificare i suoni, si tramanda che Dionisio origliasse per ascoltare quanto si dicessero i prigionieri che egli vi teneva rinchiusi. Sulla scorta di questa tradizione, sembra che il Caravaggio (che visitò Siracusa nel 1608) abbia assegnato questo nome alla grotta.
La Grotta dei Cordari è una grotta grandissima che si apre a pochi metri più a destra dall’entrata dell’Orecchio di Dionisio. E’ così denominata perché in essa, per secoli e fino a pochi decenni fa, questi artigiani vi hanno svolto il loro lavoro. Essa presenta un aspetto scenografico veramente suggestivo per la varietà di superfici e di spazi che nelle tre dimensioni dell’altezza, della profondità e della larghezza permettono alla luce di produrre degli effetti sorprendenti, soprattutto quando sul piano di calpestio si sia accumulata dell’acqua.
Seguono la Grotta del Salnitro sul cui ingresso è precipitato un enorme pezzo di roccia staccatosi dal fronte della volta della grotta stessa e la Latomia dell’intagliatella che presenta un pilastro roccioso di notevoli dimensioni; infine, ancora più ad est, troviamo la Latomia di Santa Venera, con le sue pareti interne ricche di nicchie votive. Queste ultime tre latomie, come anche le Latomie Broggi e del Casale, non sono al momento visitabili. Quasi al limite orientale del Parco archeologico si trova la cosiddetta Tomba di Archimede che sarebbe stata invece scavata in epoca romana per custodire nelle sue nicchie delle urne cinerarie.
La Latomia dei Cappuccini, chiamata così perché circonda la chiesa di questo Ordine religioso, è veramente molto estesa e caratterizzata da pareti altissime e di grande effetto scenografico. Anch’essa è attualmente chiusa al pubblico.
Quasi tutte le latomie, almeno quelle di proprietà del demanio pubblico, sono state o sono sottoposte a restauro a causa dei danni provocati dal tempo, da fattori meteorologici e persino da interventi sconsiderati degli uomini sul loro stesso territorio. Noi riteniamo non solo opportuno, ma anche doveroso che queste testimonianze materiali della storia della nostra Città siano restituite al più presto a noi cittadini ed ai turisti che desiderano visitarle.
Fonte Aretusa
Situata nella parte sud-occidentale dell'isola di Ortigia, essa è conosciuta fin dall'antichità. Durante i secoli la sua fama è molto cresciuta, insieme al mito che l'ha sempre accompagnata. La sua storia è intimamente legata a quella di Siracusa, fin dalla nascita avvenuta nel 734 a. C., fin da quando cioè Archia di Corinto della famiglia degli Eraclidi, secondo Tucidide, ricevette una profezia dall'Oracolo che gli indicava il luogo presso il quale fondare una nuova città, una volta abbandonata la sua "polis": una fonte dove le acque di una ninfa sgorgavano accanto al mare su una piccola isola della grande Trinacria.
Erano tempi in cui per la ristrettezza e la povertà del territorio molte genti si mossero dalla Grecia in cerca di nuovi spazi, abbandonando un territorio che, seppure splendido da un punto di vista paesaggistico, poco offriva dal punto di vista alimentare.
La scarsa presenza di pianure e l'abbondanza di terreni montuosi e sassosi, permettevano solo una pastorizia di semplice sussistenza, riservando alle coste una potenzialità maggiore per via del pescato. I Greci, spinti dalla curiosità e, soprattutto, dalla necessità, espatriarono in grande quantità lungo il Mediterraneo, fondando numerose città, diffondendo la loro cultura e seminando conoscenza in vastissime superfici di gran lunga superiori, come estensione, alla modestissima Grecia.
E' interessante notare come, dopo i primi momenti di cruenti contrasti, essi riuscirono ad amalgamarsi con le popolazioni locali, trasformandone in meglio gli usi e le tradizioni, lo stile di vita insomma, non tralasciando mai i rapporti con la madrepatria che rimasero frequenti ed importanti.
Erano navigatori abilissimi, forgiatisi alla grande scuola navale ellenica, profondi conoscitori dei venti che fanno del Mediterraneo un mare a volte difficile da navigare, anche d'estate quando la stagione sembra più propizia. Improvvise tempeste sorprendevano gli equipaggi e anche se la navigazione avveniva soprattutto di giorno e sottocosta, cioè a vista, le navi in balia delle onde andavano spesso a naufragare contro gli scogli delle coste bordate. Lo testimonia la ricchezza dei fondali, paradiso per subacquei e appassionati archeologi.
Tesori inestimabili specialmente per il loro valore storico e documentaristico, giacciono ancora su tanti fondali marini, nonostante una grande quantità di reperti si trovi già nei musei al sicuro insieme, purtroppo ad un'altra quantità, forse maggiore, andata perduta perché frutto di predatori dagli scarsi scrupoli che ne hanno fatto vile commercio.
La profezia, dicevamo, parlava di una piccola isola della più grande Trinacria e di una fonte prodigiosa di acqua dolce a pochi passi dal mare, manifestazione visibile della pietà di una dea che aveva fatto rinascere una ninfa sottoforma di sorgente.
Il mito di Aretusa è uno dei più antichi e belli che la cultura greca ci abbia tramandato e, nonostante siano passati decine di secoli, affascina ancora per quel misto di amore e di dolore che contraddistingue la vicenda dei due protagonisti.
La vicenda ha tutti presupposti di una grande storia d'amore. Ci sono i due protagonisti: Aretusa, ancella di Artemide, la dea della caccia, e Alfeo, dio di un fiume, figlio di Oceano perdutamente innamorato della giovane ninfa. Secondo il mito, Aretusa un giorno s'immerse per il caldo nelle acque del fiume e Alfeo che viveva sulle sue sponde, appena la vide, se ne innamorò. Aretusa spaventata fuggì, invocando Artemide che per salvarla la trasformò in una fonte, facendola sgorgare sull'isola di Ortigia. Alfeo sconvolto dal dolore si trasformò in un fiume e, attraversando il fondo del mare Ionio, riemerse proprio accanto ad Aretusa, mescolando le sue acque con quelle dell'amata ninfa. Vicino ad essa, infatti, esiste un'altra sorgente chiamata l'Occhio della Zillica che la fantasia popolare ha sempre ritenuto essere la presenza di Alfeo.
Secondo un'altra versione Aretusa durante la fuga sarebbe caduta dalle coste dell'Elide e dopo la sua morte sarebbe trasformata in fonte. A me che sono rimasto inguaribilmente romantico, piace ricordare la versione, credo di Shelley, secondo la quale Aretusa ed Alfeo erano due giovani innamorati. Un brutto giorno Aretusa, cadde da una rupe sul mare e morì, ma da Artemide venne trasformata in fonte, sorgente proprio ad Ortigia. Il dolore di Alfeo commosse Zeus che lo trasformò in fiume, permettendogli così, scorrendo sotto il mare Ionio, di raggiungere Aretusa e di mescolare le sue acque con quelle dell'amata ninfa.
Il mito di Aretusa simboleggia, in effetti, il grande legame che univa questa colonia greca alla madrepatria e la voglia dei Siracusani di sottolineare questa appartenenza al di là del tempo e dello spazio. Teocrito nelle "Siracusane" sottolinea questa appartenenza, facendo dire a delle donne di essere fiere di discendere da coloni venuti da Corinto e, per questo, usi a parlare la greca lingua.
Un'ulteriore conferma di questo profondo legame è testimoniato dal fatto che si riteneva vero che quando ad Olimpia avvenivano dei sacrifici le acque della fonte si tingevano di rosso. Siracusa, tra le altre, fu proprio la colonia greca che riuscì a svilupparsi meglio, raggiungendo uno splendore e una potenza paragonabile o, in diversi casi, superiore a quelli di molte città greche. L'arte, la filosofia le scienze e la cultura in generale in questa città vennero favorite da tiranni illuminati, perfino da Dionisio il Vecchio, che partecipava a concorsi letterari in Grecia con tragedie scritte proprio da lui.
Il luogo e il mito hanno ispirato nel corso dei secoli decine di poeti e scrittori come: Ovidio e Silio, Virgilio e Pindaro, Pindemonte, Gregorovius, D'Annunzio, Quasimodo, Carducci, Milton, Shilley, Andrè Gide e Cicerone, per citarne alcuni. Essi si sono ispirati a questo luogo e a questo mito, come se specchiandosi nelle acque della fonte, fossero rimasti ammaliati per incanto da una sottile magia. In una sua poesia Giosuè Carducci così si esprime:
"amore, amor, sussurran l'acque
e Alfeo chiama nei verdi talami Aretusa"
e Salvatore Quasimodo:
"Non un luogo dell'infanzia
cerco, e seguendo sottomare il fiume,
già prima della foce in Aretusa,
annodare la corda
spezzata dell'arrivo."
Per gli antichi l'acqua era un bene prezioso e, soprattutto, per i coloni che per primi avevano attraversato il mare per giorni e settimane e che provenivano da terre notoriamente povere di sorgenti e di fiumi, la scoperta di fonti d'acqua dolce così a ridosso del mare dovette sembrare la manifestazione evidente della benevolenza di qualche divinità.
Per l'ammiraglio inglese Nelson, addirittura, era un luogo portafortuna, perché egli, dopo avere approvvigionato di acqua le sue navi, battè la flotta francese di Napoleone, ad Abukir nelle acque del Mediterraneo, al largo dell'Egitto.
La fonte, descritta anche da geografi arabi come Edrisi vissuto nel XII secolo, insieme ad altre vicine, è stata utilizzata per secoli per la concia delle pelli. A causa di terremoti ed incuria il luogo si era ridotto ad uno squallido lavatoio. Nel tempo, essa ha subito molti rifacimenti. L'aspetto attuale di grande fascino ambientale è dovuto all'ultima sistemazione del 1843, sotto l'Amministrazione del sindaco Borgia.
Lo specchio d'acqua, in una vasca semicircolare, si apre visualmente verso il mare, delimitato da esili ed eleganti ringhierine di ferro; il fondo gorgoglia per il continuo afflusso di acqua dolce. Il verde trionfa grazie ai papiri e alle piante acquatiche, in mezzo alle quali pesci d'acqua dolce nuotano in grande quantità, mentre i piccioni svolazzano goffamente sopra o ai margini di essa. Sgorga a poco più di mezzo metro sul livello dl mare ed è naturalmente soggetta, come tutte le fonti, a variabilità stagionale.
Localmente viene chiamata "'a funtana 're pàpiri" (la fontana delle anatre) per via di quegli uccelli e dei cigni che sfilano come in una passerella, scivolando e galleggiando sulle sue acque.
In effetti, si tratta di una delle numerosissime sorgenti naturali che caratterizzano tutta la costa a sud di Siracusa, frutto della generosissima falda freatica iblea che, durante la stagione delle piogge, accumula grandi quantità d'acqua. Rilasciandola gradatamente nel corso dell'anno, essa da luogo in prossimità del mare a molte polle sorgive, alcune delle quali famose come quella che da origine al breve corso del fiume Ciane, che sfocia nel Porto Grande di fronte all'isola di Ortigia. Un'altra località a quindici chilometri a sud di Siracusa è, addirittura, chiamata Fontane Bianche per la presenza di fonti d'acqua dolce, che scaturiscono da rocce chiarissime, lambite dal mare.
Il territorio degli Iblei, il massiccio montuoso a sud della Sicilia con cime di modesta altitudine (M.te Lauro 984 m.s.l.), interessa ben tre province: Siracusa, Ragusa e Catania. Di natura calcarea, ricco di un'incredibile quantità di fossili, è stato soggetto al fenomeno carsico. Nel tempo questo processo ha trasformato il carbonato di calcio insolubile in bicarbonato, il quale si è sciolto nell'acqua filtrante, lasciando grandi e vuote concamerazioni interne, rendendo il tutto simile ad un enorme gruviera. Questo ha permesso e permette ancora oggi un lento deflusso verso il mare di tutte le acque che in profondità lo attraversano.
Territorio di enorme importanza storica e culturale, sede naturale di numerose popolazioni e di importanti siti archeologici, dichiarato Patrimonio dell'Umanità da parte dell'Unesco, trae la sua origine da fondali marini mediterranei di milioni di anni fa, sollevatisi grazie all'orogenesi alpina.
La fonte, come abbiamo già detto, sorge sull'isola di Ortigia, lunga circa un chilometro, di grande importanza strategica, provvista di due porti naturali il primo, quello grande, ad uso mercantile e militare e il secondo, più piccolo, per le attività di pesca e della cantieristica. Qui sono ancora visibili i resti dell'Arsenale dove venivano prodotte le navi siracusane, alcune delle quali sono passate alla storia della navigazione, come quella fatta costruire da Archimede e che tutt'oggi risulta essere la più grande dell'antichità, una sorta d'ammiraglia, una specie di catamarano con due navi gemelle, unite da ponti trasversali, che poteva contenere una quantità incredibile di soldati e di merci.
Archia il fondatore di Siracusa, trovò l'isola già abitata dai Siculi ed arduo dovette essere il suo compito perché essi, pur non essendo genti molto bellicose, mal si adattarono a questa nuova situazione che li scacciava da un luogo così delizioso, bramato anche in seguito da tante popolazioni. Ogni angolo, infatti, nasconde segni importantissimi del passato. Il sottosuolo, poi, è un'autentica miniera. Sotto edifici già di per sé famosi ci sono vestigia dell'antica Siracusa, come ad esempio il tempio ionico sito sotto lo splendido Palazzo Vermexio, sede del comune. Ortigia è un'isola che conserva, dopo averle mescolate, tutte le impronte delle culture delle genti che l'hanno conquistata: i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi e gli Svevi.
Pochi posti al mondo possono vantare una simile concentrazione di resti di civiltà che, soprattutto nel Mediterraneo, hanno espresso la loro vitalità, contribuendo allo sviluppo del mondo moderno.
Una luce che filtra tra le viuzze e le piccole piazze, quasi nascoste tra gli edifici che incombono serrati su di esse, rende nelle giornate di sole con lo spessore delle forme, contrasti di luminosità di grandissimo effetto. I palazzi che si affacciano sulla Marina del Porto Grande sfavillano con i loro rossori morbidi nel pomeriggio che diventa sempre più sera. Luci ed ombre qui sembrano protagonisti di una titanica lotta che non avrà mai vincitori, ma che permette al tramonto e, soprattutto in prossimità della fonte, panorami di una suggestione profonda, di una malìa che affascina e che non potrà più essere dimenticata da chi ha avuto o avrà la fortuna di ammirarli.
Tino Insolia
L’anfiteatro
dal greco AMPHI’ e THE’ATRON= teatro da ambedue le parti) non è una creazione greca, ma italica, destinata ad ospitare combattimenti di gladiatori, cacce e naumachie. Nel mezzo dell’ impianto c’era l’arena, riservata ai combattenti e circondata da un muro, il podium, da cui iniziavano i gradini che formavano la cavea. Le gradinate, destinate agli spettatori, erano divise in settori da scalinate che conducevano ciascuna ad una porta (vomitorium= uscita). La parte più alta era costituita da un portico chiuso verso l’esterno e con un colonnato verso il lato interno. Sull’arena si aprivano due porte: una per l’entrata dei gladiatori ed una per portare via i corpi di quelli che venivano uccisi. Nei sotterranei c’erano gli alloggiamenti per le fiere. Ogni anfiteatro disponeva di locali per l’addestramento dei gladiatori, di un obitorio per quelli che venivano uccisi, di una cucina e di altri servizi.
L’Anfiteatro Romano di Siracusa è orientato da N. - O. a S. – E. Mentre la parte rivolta a Nord fu scavata nella roccia, la parte Sud fu costruita con blocchi di pietra. Gli scavi di questo edificio, di cui oggi si può ammirare solo la parte più bassa, furono fatti nel 1839. Il suo asse maggiore è lungo 140 metri, quello più corto 119 metri ed è perciò il più grande fra quelli esistenti in Sicilia. Esso presenta due ingressi, uno sulla curva Nord, l’altro sulla curva Sud. Al centro dell’arena c’era una costruzione coperta collegata, tramite un sotterraneo, all’esterno della curva Sud. Attraverso questo sotterraneo, venivano introdotte nell’arena tutte le cose occorrenti alla realizzazione degli spettacoli. Dietro il muro che racchiudeva l’arena c’era un corridoio sotterraneo, la crypta, e sopra questa i posti a sedere per i personaggi più importanti. A livelli più alti, altri due corridoi permettevano agli spettatori di raggiungere le gradinate.
TEMPIO DI ATHENA
Nello stesso sito della attuale Cattedrale di Siracusa, tra il 480 ed il 470 a. C., Gelone, per celebrare la vittoria di Himera sui Cartaginesi, fece costruire un tempio dedicato alla dea Athena (Athenaion). Era un tempio periptero, cioè su tutti e quattro i lati circondato da colonne, 6 sui lati più corti e 14 sui lati più lunghi. Era doppiamente IN ANTIS (cioè con pronao ed opistòdomo),(vedi la struttura di un tempio) costruito in pietra calcarea intonacata e dipinta. La sua trabeazione presentava triglifi e metope lisce. L’interno era decorato con pitture e la porta era impreziosita da decorazioni in oro e avorio. Sul frontone splendeva uno scudo d’oro che era la prima cosa che vedeva di Siracusa chi la stesse raggiungendo dal mare. Un acroterio sul frontone era costituito da una statua in marmo di Nike (la dea della vittoria). Verso la fine del VI secolo d. C., l’Athenaion fu trasformato in basilica cristiana a tre navate e nel secolo successivo divenne la Cattedrale di Siracusa. Sotto gli Arabi (dall’878 in poi), la Cattedrale cristiana fu quasi sicuramente trasformata in moschea, per poi tornare ad essere una chiesa cristiana dopo la conquista normanna. Il campanile fu distrutto, una prima volta, nel 1542 da un terremoto e, dopo essere stato ricostruito, rovinò di ancora nel 1580 per effetto di un fulmine. Nel XVII secolo, all’ interno della Cattedrale furono costruite le cappelle del Sacramento e del Crocifisso. Il terremoto del 1693 fece crollare la facciata normanna e, per la terza volta, il campanile. Nella prima metà del XVIII secolo fu iniziata la costruzione della Cappella di Santa Lucia e fu rifatta la facciata su progetto di Andrea Palma.
V. Accarpio
V. Accarpio
Il tempio di Apollo
E’ il più antico tempio dorico della Sicilia, infatti è stato costruito agli inizi del VI secolo a. C. Il suo architetto fu Kleomene, mentre le sue colonne furono opera di Epiklès. La pietra usata per la costruzione (nome locale “giuggiulena“) fu prelevata nella zona del Plemmirio. Il tempio, lungo m 58,10 e largo m 24,50, ha un basamento di 4 gradini, presenta 6 colonne sui due lati corti e 17 colonne sui lati lunghi. L’ altezza dell’ architrave è di m 2,15. La cella era divisa in tre navate da due colonnati interni dei quali rimangono alcuni frammenti. Le colonne della peristasi sono le più tozze e le più ravvicinate di quelle conosciute nell’ architettura greca. La parte superiore del tempio era rivestita con terracotte policrome. Su uno dei gradini del lato Est era incisa un’ iscrizione dedicatoria ad Apollo, mentre il lato Ovest del basamento è stato rifatto secondo le misure originali. Si sono mantenute ancora intatte due colonne del lato Sud con epistilio, parte delle colonne di questo stesso lato e del lato Est ed una parte del muro della cella sul lato Sud. La fronte del tempio presentava due colonne fra le estremità dei muri perimetrali e quindi era “in antis”. Forse al centro del frontone si trovava una grande Gorgone di terracotta, mentre sulla parte più alta del tetto c’era una statua di cavaliere (acroterio). Il tempio, nel corso dei secoli, ha subito diverse trasformazioni: prima fu trasformato in chiesa bizantina, poi in moschea araba, in basilica normanna, in caserma spagnola ed infine, sul suo sito, fu edificata la chiesa della Madonna delle Grazie.
V. Accarpio
Le foto contenute in questa pagina sono del Prof.re Accarpio da Siracusa.
Le sculture riproducenti la ricostruzione del tempio sono opera di Antonio Randazzo da Siracusa
Agli utenti di miti3000 e agli amanti dell'Archeologia, auguriamo una buona visione.